Il ritorno di Gregory: l’altro Michael Jackson.

“L’ho sempre considerato uno dei chitarristi più originali della nostra generazione” (Pat Metheny ). “L’ho sentito a Boston nel 1975, ed il suo stile mi  colpì ed influenzò profondamente. Credo sia uno dei tanti innovatori misconosciuti.  (Bill Frisell).

Oggetto di tanta ammirazione è un musicista considerato dalla critica, in gioventù, uno dei fenomeni più singolari nel mondo del jazz : Michael Gregory Jackson. Un talento in grado di illuminare come una meteora il panorama avant garde della New York dei primi anni settanta, diventando, ancora adolescente, il braccio destro di Oliver Lake prima nel quartetto e quindi nel trio con il batterista  Pheeroan aKLaffIl. Velocità di esecuzione, uso innovativo degli effetti elettronici e capacità di alternare frasi cristalline ed elettriche dissonanze colpirono molti fra gli osservatori ed i musicisti dell’epoca. Fra i quali autorevoli esponenti del movimento AACM, Anthony Braxton, Julius Hemphill, e David Murray, con i quali Gregory stabilì intense collaborazioni culminate nell’esordio solista del 1976, un Esp Disk registrato con Lake, Murray e Wadada Leo Smith intitolato “Clarity, Circle, Triangle, Square” e battezzato dalla critica come fulgido esempio di convivenza fra virtuosismo e versatilità, “come se Stevie Wonder suonasse musica improvvisata“. Nel decennio seguente la bilancia fra pop e jazz prese a pendere verso il primo piatto, Michael collaborò con stelle del rock e del R&B (Steve Winwood, Nile Rodgers, Carlos Santana, Vernon Reid), e decise di presentarsi eliminando il secondo cognome per evitare imbarazzanti confusioni con la stella del pop.

Infine il ritorno alle proprie radici musicali, sebbene in una terra lontana da quella di nascita come la Danimarca, con la simbolica scelta di intitolare Clarity Quartet, in omaggio a quel disco d’esordio,  la nuova formazione composta da musicisti danesi con i quali è stato registrato “WHENUFINDITUWILLKNOW”, in uscita in questo periodo per Golden Records.

cover MGJ

L’evento, in realtà, può considerarsi il coronamento di un processo di  riavvicinamento alle avventurose atmosfere degli esordi avviato già all’inizio del decennio, quando Gregory Jackson produsse e suonò su due album di Wadada Leo Smith con l’Organic Ensemble, “Spiritual Dimensions” (2009) e  “Heart’s Reflections (2011), per poi stabilirsi in Danimarca e riannodare con Niels Praestholm (basso), Simon Spang-Hanssen (sax), e Matias Wolf Andreasen (batteria), i fili di quella spessa trama ispirata al  jazz newyorkese di metà anni 70 . Con loro Gregory, che nel frattempo ha ripreso ad usare i due cognomi, ha già inciso nel 2015 “After Before”, e, dopo una parentesi nel 2017 con musicisti americani, (“Spirit Signal Strata”), è tornato a registrare lo scorso anno.

La sequenza dei brani composti dal leader, aperta dall’iterativa e magnetica melodia di un “Theme X”, dedicato a Geri Allen, è una piccola vetrina dell’attitudine libera e molto fisica di Gregory Jackson, ed al contempo della versatilità che gli consente di spaziare da composizioni ornettiane  come “Clarity 6”,  ad un torrido blues come “Blue blue”,  dagli ostinato monkiani di” Clarity 3” agli aromi latin di “Ah Yay”,  passando per la rutilante fusion di “Spin”. Temi spigolosi e dialoghi chitarra/sax animano le notturne atmosfere di “Collectors of Social Dismay“, mentre “Souvenirs” intensa e viscerale, riporta il discorso su terreni armolodici, esibendo un solo graffiante di Gregory Jackson. La conclusiva “Meditation in E” chiude il lavoro su note riflessive e pacate, con la chitarra a disegnare sognanti arabeschi.

Un disco prisma, con tante diverse facce, nel quale la prevalente impronta avant jazz, ben sostenuta dal sax e dalle originali figurazioni ritmiche, è contemperata dallo stile trasversale del chitarrista, che coniuga in modo personale jazz, rock ed un pizzico di fusion, portato dei lunghi anni trascorsi in territori di confine, prima di un “ritorno a casa” da salutare con soddisfazione.

Michael Gregory Jackson Clarity Quartet -

2 Comments

  1. Conservo ancora l’album Clarity del 1976 che ho arato a furia di ascolti. Ho ascoltato Jackson dal vivo nel trio di Oliver Lake (se ricordo bene a Willisau nel 1979) e mi aveva fatto grande impressione. Sapevo che aveva cambiato rotta (e non è difficile immaginare per quali motivi), non sapevo che fosse “tornato”. Purtroppo l’innovatore che tante speranze aveva suscitato allora è ormai un placido signore dal quale viene difficile immaginarsi concetti rivoluzionari. Peccato, un bel talento che avrebbe potuto dare molto alla nostra musica.

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  2. Non sarei così negativo all’ascolto del disco. Qualche punto debole c’è, ma il tono generale è dignitoso e qualche zampata non manca. Il pezzo dedicato a Geri Allen poi è proprio bello.

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