JAZZMI 2019, prossimamente su questi schermi…..

Stavo per iniziare questo pezzo con l’occhiello “dal Vostro infiltrato speciale…” già usata quest’estate per Umbria Jazz, ma il discernimento ha prevalso sul gusto della boutade (una volta tanto…), JazzMi non lo merita. In passato e recentemente molto si è discusso su queste pagine sull’impostazione del cartellone musicale di questo Festival, con posizioni ed opinioni anche parzialmente diverse. Il vostro cronista è però del parere di metter tra parentesi queste discussioni per offrirvi un resoconto dell’avvenimento.

Infatti si può discettare a lungo sulle scelte che ne stanno alla base, ma dal canto mio osservo che è più realistico vederlo come una sorta di grande, breve festa del jazz ed affini, che comunque rompe il silenzio che grava intorno ad esse per un intero anno o giù di li in una città che è stata veramente matrigna verso queste musiche, quanto meno negli ultimi anni. Atteggiamento ancor più discutibile considerando la grande disponibilità di risorse economiche, organizzative e di strutture di cui dispone: risorse spesso futilmente dissipate od addirittura lasciate del tutto inutilizzate, talvolta in stato di abbandono. E lo dico da milanese doc, nato e vissuto in questa città e che l’ha vista in momenti di ben altra vitalità e dinamismo: ben accette obiezioni e critiche, ma io mantengo il punto senza esitazioni o timidezze diplomatiche. Scrivo nell’ultimo pomeriggio della kermesse, è già mi sale l’ “empty stage blues” al pensiero dei mesi di quaresima che seguiranno da domattina.

Iniziamo con uno sguardo generale. Come negli anni scorsi, mi sono ritagliato un percorso personale nella sovrabbondanza di proposte (ahimè tremendamente concentrate nel tempo), e quindi molto di intrigante ne rimarrà fuori (non abbiamo il dono dell’ubiquità che dimostra il direttore artistico Linzi). E poi bisogna metter in conto i nostri soliti gusti da ‘gufi’ incorreggibili.

Anticipo che seguirò almeno tre filoni diversi del Festival. Infatti se a Milano le ‘blue notes’ sono merce rara, fotogrammi e parole sulle stesse sono addirittura fenomeni che hanno del soprannaturale. Inutile ricordare che discorsi e pellicole sono quantomai importanti per fare veramente nostra una musica che si rivela spesso impervia ad una lettura puramente emotiva e soggettiva, come dicevamo qualche giorno fa.

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La musica come terapia di segrete vulnerabilità

I Fotogrammi. Qui il ruolo di JazzMi è assolutamente insostituibile, e di gran rilievo per le scelte effettuate. A poche settimane dal debutto sugli schermi americani è planato qui “Miles Davis, Birth of the Cool”, l’atteso documentario di Stanley Nelson sul personaggio Miles che vi avevamo preannunziato mesi fa. Ve lo racconterò cercando di sdoppiarmi tra il punto di vista del neofita in cerca di approfondimenti e quello del jazz addict di lunga data: il discorso è complesso, cercherò di svilupparlo in modo diffuso dal momento che le possibilità di rivederlo sono piuttosto incerte e remote. Per non passare da esterofili, sarà poi la volta di “Chet is back. Chet Baker in Italia” di Nello Correale, un’indagine che cerca di salvare dallo spensierato scialo nostrano le frammentarie memorie del movimentato rapporto che il trombettista californiano ebbe con il nostro paese dagli anni ’60 sin quasi alla misteriosa scomparsa del 1988: ne emerge anche un vivace ritratto del milieu jazzistico romano che lo circondò ed in certa misura lo protesse. Produzione di Rai Cinema, c’è persino il rischio di vederlo in qualche alba di decenni a venire.

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Roberto Polillo, ecco il perchè del rimpianto….

Ma ci sono anche le immagini fisse (si fa per dire, spesso sono quelle che più a lungo si muovono nel tempo e soprattutto nella memoria): i contrastati bianco&nero di Roberto Polillo per molti di noi sono una rimpianta immagine di una musica che sfida ad oltranza la volontà di possesso, ma che spesso sì è fatta rubare dalla fotocamera molti decisivi ‘momenti della verità’. Anche il più giovane Luciano Rossetti espone alla Triennale giusto a fianco della sala del teatro, ma temo che con la chiusura del Festival i suoi scatti non risultino più raggiungibili, al contrario di quelli di Polillo jr.

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Charles Mingus ed Eric Dolphy, ancora secondo Roberto Polillo

Le Parole. Sono quelle ‘parlate’, spesso più vive e calde di quelle stampate, anch’esse scarse ma decisamente più accessibili. JazzMi ha radunato un notevole parterre di quelli che io chiamerei ‘scrittori di jazz’, lasciando da parte cartellini del tipo ‘critico’, ‘musicologo’ etc..: Claudio Sessa, Maurizio Franco, Sandro Cerini, Massimo Donà, Ashley Khan, Luca Conti. Ad essi ha anche affiancato l’immediatezza della voce di alcuni musicisti militanti, alcuni dei quali custodiscono ormai dei veri tesori di ‘storia orale’ (Franco D’Andrea ed Enrico Rava, tanto per non far nomi). Tutto questo conversare si è coagulato intorno ad una musa onnipresente, la cinquantenne ECM, signorina sempre alla moda ed anche alquanto ‘chiacchierata’, come si diceva nel mio evo, ed infatti il gossip non è mancato, così come la varietà degli argomenti: la musa è ‘vissuta’, appunto.

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Una copertina dal fascino magnetico per una vera pietra miliare: ne ha parlato Claudio Sessa

Le Note. Il paniere è selezionato, ma piccino: orologio e borsellino hanno fatto valere le loro ragioni. Diamo spazio anche ai personali rimpianti: Kokoroko, Rymden, l’Insight di Francesco Chiapperini ed ancora una volta Melanie di Blasio. Abbiamo portato invece a casa Enrico Rava con la sua (very) Special Edition, Nubya Garcia (finalmente una South Londoner nel carnet, peccato aver ‘bucato’ nelle scorse edizioni i due Shabaka Hutchins che con occhio lungo JazzMi aveva proposto nelle scorse edizioni), Archie Shepp (ahimè il cuore è tenero….) ed Ambrose Akinmusire Quartet (nota bene, è la seconda volta in pochi mesi, la prima è colpevolmente rimasta nella penna, pardon nel mouse).

Un’ultima nota di cronaca: anche stavolta JazzMi ha evocato da fori muscosi ed atrii cadenti lo sparso e ramingo popolo del jazz, anzi, per la precisione molti pubblici diversi per età, gusto ed orientamento: nonostante il progressivo, interminabile inverno degli ultimi anni c’è ancora terreno da seminare e musica da far crescere. Il problema è quello di rincuorare seminatori scoraggiati, trovare campi al riparo dai corvi e fare la nostra parte di spettatori sanamente scalmanati.
A rileggerci tra poco. Milton56

7 Comments

  1. Ho avuto la fortuna di vedere/ascoltare dal vivo Chet Baker, a Roma, poco tempo prima che morisse…
    All’inizio della lettura dell’articolo volevo segnalarvi proprio la mostra di Polillo, sulla quale ho condiviso un articolo.
    Avrei una domanda, dovuta solo a una mia impressione: ma come mai il jazz italiano contemporaneo sembra (quasi sempre) tutto uguale? Sono stupita, perché a volte i musicisti sono importanti e giustamente stimati.
    Ciao, Francesca.

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    1. Francesca, risvegli i miei peggiori istinti forzandomi ad usare la sciabola su di un argomento del genere. E sia:
      – il jazz italiano non è tutto uguale, lo è quasi sempre quello che occupa i palchi più in vista. Nell’oscurità di cantine e topaie si nasconde l’originalità, i Grandi Vecchi (non più di due, per me) si ascoltano solo nelle feste comandate;
      – Il nostro jazz si è chiuso in se stesso in una malintesa rivendicazione di ‘Identità’ (maiuscolo non da refuso), concetto con cui nel jazz si fa pochissima strada (anche altrove, ma il redde rationem arriva più tardi). Un’autarchia che del resto riflette bene la più generale situazione del Paese, che la cultura registra fedelmente e con largo anticipo;
      – C’è poi un problema di committenza. Festival con sponsorizzazioni variegate e relativamente fuori misura per la modesta scena italiana non sono i luoghi per gli esperimenti e gli azzardi, anche piccoli. A questi dovrebbe provvedere un circuito di piccoli club con pubblico non occasionale e di una certa consapevolezza, luoghi jazzistici ormai ridotti ai minimi termini in Italia, e per lo più sotto la spada di Damocle di un placet ideologico da parte del potere politico locale da cui dipendono essenziali supporti economici o di struttura;
      – Il giovane jazzman italiano ormai si forma quasi solamente nelle scuole: e quello tra cattedra e banco è sempre un rapporto di autorità anche sotto le pedagogie più avanzate. Negli anni ’70 ed ’80 molti degli attuali campioni del jazz italiano si formavano in cantine e seminari autogestiti, scegliendosi i loro maestri da chierici vaganti ed affrontando quasi subito il momento della verità del confronto con un pubblico molto più folto e diffuso. Funzionava ancora anche da noi quel modello di formazione comunitaria che è stata la forza del grande jazz;
      – Infine c’è un problema di pubblico. Quello giovane è una fata morgana resa irraggiungibile da una politica di prezzi dei concerti jazz spesso escludente e da un diseducativo paesaggio musicale generale banale ed immobile (rap all’amatriciana, cantautori in servizio permanente effettivo, talent show orwelliani etc.). Del resto non si può far la morale a chi si è visto offrire pressocchè solo i Fabrifibra, quando la fascia più matura del pubblico, quella che in passato ha goduto di stimolanti occasioni di crescita, si ingaglioffisce in ascolti nostalgici o superficialmente trendy: e sono questi gli spettatori dei live a 40/50 e più euri che fanno il mercato.
      Leggi i futuri pezzi su ‘JazzMi – Le Parole’, lì troverai in cifra ed in forma più argomentata la risposta che cerchi. Milton56

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  2. “Il jazz italiano non è tutto uguale, lo è quasi sempre quello che occupa i palchi più in vista. Nell’oscurità di cantine e topaie si nasconde l’originalità”: io non sono mai presente sui palchi più in vista né nelle topaie. Ascolto cd e radio.
    No, per favore, non posso subire una risposta più argomentata di questa, con la quale – secondo me – parli più a te stesso che a qualcuno che vuole imparare. Ciao ciao

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    1. Scusa, mi accorgo solo ora di essere stata troppo severa. Hai argomentato benissimo e ho capito alcune cose che prima non sapevo o, almeno, non nei dettagli e approfonditamente. È che da un bel po’ di tempo, quando ascolto i jazzisti italiani mi innervosisco. Anche i migliori suonano, più o meno, come le mezze tacche o quelle che, per ragioni di pubblico, soldi, visibilità, ecc., sono più acclamate, invitate, diffuse… E se mi innervosisco, il resto dell’ascolto va a ramengo con, magari, diversi le qualità che non ho la pazienza di aspettare. Siccome cerco di seguire la vostra politica dello “horse with no name”, non oso essere più esplicita. Però c’è un mio commento fotocopia che fa sempre infuriare mio marito e che ovviamente faccio per dispetto, che consiste nel paragonare i suddetti a Fausto Papetti 😀

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    2. Severa? figurati, sapessi cosa abbiamo ricevuto in passato :-). Fausto Papetti: come dicevo in passato, è stato socialmente utile 😉 e poi ha generato un suo clone, tale Johnny Sax, che era un noto jazzman italiano in incognito….. tra l’altro copertine più loffie. I jazzisti italiani sono in effetti un po’ piatti e leziosi, almeno quelli dei piani alti, un po’ per questione di stanchezza, un po’ per questioni di marketing. Ma ci sono anche le eccezioni. In ogni caso, cerca di andare a sentire dal vivo quelli che in passato ti sono piaciuti di più: spesso lo scarto con la loro immagine discografica è forte, su questa pesa – nel bene e nel male – la produzione. I dischi: ahimè, in Italia è rimasto molto poco, le grandi compagnie multinazionali ci ritengono mercato troppo piccolo per accollarsi produzioni che circolerebbero solo da noi. Rimangono un pugno di piccole etichette valorose, che recentemente però stentano un po’: Auand, Dodici Lune, Rudi Records, Caligola… La radio: ‘na tragedia. Sui canali nazionali ormai il jazz ha un nome e cognome, e via lui, ti saluto…. Nel nostro piccolissimo cerchiamo di seguire una programmazione che purtroppo è piuttosto estemporanea e poco pubblicizzata (non parliamo dei siti web RAI, per carità..), ed alla fine si risolve tutto in un’oretta settimanale (talvolta nemmeno quella). C’è anche un altro programma, ma scarsamente fruibile e praticamente solo da insonni cronici. Prossimamente pubblicherò un pezzetto informativo con il link di un podcast web molto interessante, soprattutto dal punto di vista didattico informativo. Stay tuned (soprattutto domattina). Milton 56

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    3. Sì, in radio ci sono nomi e cognomi. Mi dispiace, ma i siti web della Rai propongono quelli. Parli di Battiti? Non soffro particolarmente di insonnia.
      Comunque, io mi appello all’Emendamento Dostoevsij: “Sparale grosse, ma che sia farina del tuo sacco: e io ti vorrò un bene dell’anima. Spararle grosse a proprio modo, è quasi meglio che dir la verità al modo altrui; nel primo caso sei un uomo, nel secondo sei solo un pappagallo! La verità non scappa mai, mentre c’è il pericolo di imprigionare la vita…” (Delitto e castigo). Tienine conto perché so’ un po’ servaggia!

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