JAZZMI 2019: I FOTOGRAMMI. 1. MILES, L’ICONA COOL

JazzMi non è solo note irradiate da un palco, ma molto altro: tra questo hanno un posto importante i documentari che sempre rappresentano delle esclusive assolute per l’Italia, cui purtroppo non segue alcuna forma di distribuzione che consenta a queste particolari pellicole di raggiungere un pubblico più ampio dei 100-200 spettatori raccolti dalle due proiezioni presso l’Anteo di Milano. Del resto, bisogna farsene una ragione: cosa vogliamo pretendere in un paese dove possiamo contare su soli 990 canali di digitale terrestre, e su web tv on demand che sbucano come funghi d’autunno persino sui display degli smartphones? Accontentiamoci di attivare gli alert delle videoteche online per sperabili dvd…

Quando ho visto l’atteso “Miles Davis: Birth of the Cool” di Stanley Nelson sul cartellone di JazzMi mi è piaciuto pensare ad una preghiera esaudita. Tra l’altro il film è stato proposto quasi in contemporanea all’uscita americana, ovviamente in edizione originale con sottotitoli in inglese che aiutano in certi passaggi (alcune voci sono molto ‘particolari’). Premetto che sono arrivato alla proiezione italiana con alle spalle qualche lettura sul lavoro di Nelson attinta dalla stampa americana ed inglese: e questo può avere il suo peso su alcuni miei punti di vista che seguiranno.

Utile anche qualche parola su Nelson, nato nel 1951 da una famiglia della borghesia nera newyorkese (madre imprenditrice e padre medico dentista di fama), famiglia tra i cui componenti è da sempre forte una tradizione di impegno civile. Anche Stanley non fa eccezione, ed il suo curriculum di documentarista pluripremiato (Emmy, Sundance Festival tra gli altri) lo testimonia. Da ultimo ha firmato “The Black Panthers: Vanguard of a Revolution”, prima parte di una storia del noto movimento che costituisce ancora un argomento in larga parte tabù nella vita pubblica USA, soprattutto per le oscure modalità con cui venne liquidato: i processi civili per la strage di Attica  (1971) si sono conclusi solo pochi anni fa in modo molto significativo, ‘armadi della vergogna’ e pluridecennali odissee giudiziarie non sono una specialità italiana. Alla luce di tutto ciò risulta molto significativo il suo interesse per la figura di Miles Davis, sul quale Nelson ha avviato un lavoro di raccolta di documenti e testimonianze che ha preceduto di molti anni l’inizio della lavorazione del film: fa una certa sensazione veder parlare persone da tempo scomparse.

Dal momento che le mie impressioni sul lavoro di Nelson sono piuttosto articolate ed in parte distanti dalle aspettative iniziali, mi sembra giusto proporre due angoli visuali diversi. Mettetevi comodi, inizia il nostro film: di parole, naturalmente.

Cominciamo con il dire che il ritratto davisiano tracciato da Nelson è del tutto imprescindibile per ascoltatori che si siano accostati da poco al jazz e che comunque non abbiano potuto completare la loro esperienza d’ascolto con letture che la inquadrino storicamente ed esteticamente. Nelson è rigoroso e preciso sia come uomo di cinema che come ricercatore, il suo film è un’istantanea intensa e profonda di una figura centrale non solo della musica afroamericana, ma della vita culturale americana del 20° secolo tout court. Nulla dei contrasti e delle ampie zone d’ombra – entrambi largamente insondati e controversi tuttora – rimane al di fuori del quadro di ‘Birth of the Cool’. Ineccepibile e felice la scelta dei momenti nodali del percorso artistico ed umano di Miles: l’infanzia agiata a St.Louis, i primi passi nel mondo della musica e l’arrivo a New York, il contrasto tra la precoce iniziazione all’ambiente del bebop e gli studi alla prestigiosa Juilliard School, abbandonata dopo un’epocale scenata ad un’insegnante che snocciolava banalità pietistiche sulle radici del blues. Poi la prima esperienza di innovatore con il tentetto di ‘Birth of the Cool’ (il celebre disco del 1949, ovviamente), i penosi anni di deriva junkie e di vera miseria (impressionante a riguardo il ricordo di George Wein di un Miles che calpestava incredibilmente il suo proverbiale orgoglio per spillare qualche spicciolo dei suoi ingaggi alle spalle del suo agente che voleva impedire che finissero istantaneamente in eroina). Poi la terribile prova del ‘cold turkey’, brutale metodo di disintossicazione con cui Miles si scrollò di dosso la ‘scimmia’ nella casa paterna (sono in pochi ad esserne usciti vivi, tra questi anche Coltrane); il famoso riscatto umano ed artistico al Festival di Newport del 1955 che gli fruttò un istantaneo ed miracoloso approdo alla Columbia Records, il sancta santorum dell’industria discografica americana: basti dire che il talent scout Avakian che lo scritturò direttamente sul palco di Newport all’epoca fu preso per pazzo nell’ambiente. Poi il profondo ed indissolubile legame con Gil Evans; “Kind of Blue”, l’equivalente jazzistico del monolite kubrikiano di “2001 Odissea nello Spazio”; gli anni del successo sociale e mondano con al fianco la splendida Frances Taylor (“l’unica donna di cui sia stato geloso”…. purtroppo per lei); la lunga ed assortita serie di donne che successivamente non riuscirono mai a colmare il vuoto lasciato dalla fuga della vessata Frances; e via tumultuosamente sino agli anni della ‘svolta elettrica’ (che fu innanzitutto esistenziale), del periodo cupo e buio del ritiro dalle scene ed infine il canto del cigno del ritorno sul palco dell’ultimo decennio.

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Frances Davis nel film: “Non dimentico, non rimpiango….. amo ancora”. Leonard Bernstein la voleva come prima ballerina di “West Side Story”. Miles le impose di rinunziare….

Ed i jazz addicts che hanno macinato tutta la letteratura davisiana disponibile, loro cosa possono cavare da ‘Birth of the Cool”? A mio avviso il film non presenta fatti o testimonianze nuovi o tali da rivoluzionare l’immagine di Miles sin qui formatasi. Anche l’aspettativa di vedere inediti filmati amatoriali relativi alla sua vita privata è andata in parte delusa: ci sono però foto molto particolari e significative.

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Vai a far capire al NYPD che che la Ferrari a cui ti appoggi è tua: sei sempre un ‘nigger’, anche a New York….. Rilascio senza imputazioni, ma la cabaret card gliela ritirano egualmente e senza spiegazioni

Impressionanti le istantanee in stile Wegee del trombettista coperto di sangue dopo l’aggressione subita da un poliziotto in una pausa davanti ad un club: si badi bene, stiamo parlando della New York dei primi anni ’60 e di un musicista all’apice del successo mondano ed artistico, e non di un bracciante nell’Alabama degli anni ’30. Per fortuna si torna a sognare con ben altre immagini che ritraggono Davis insieme ad un giovane Prince: un’altra affascinante occasione mancata dopo quella con Hendrix. Il rigore di Nelson gli impedisce poi di sopperire con la costante intensità emotiva tipica di ‘Chasin’ Trane’ o quella più intermittente di ‘Blue Note, beyond the notes’, ma non mancano momenti di intensità. Per esempio l’incipit del film, dove a fronte dello scorrere di immagini dell’infanzia di Miles sentiamo l’attore che gli dà credibilmente voce citare un passo della sua autobiografia che inizia con “Music is a curse…”, la musica è una maledizione…. Oppure i ricordi di Hancock e Shorter sulla conduzione a mezzo tra lo sciamanesimo e lo zen che il trombettista adottava in occasione dei concerti del celebre ‘secondo quintetto’. Davis: “suonate in libertà, come se foste ad una prova. Soprattutto fate quello che non avete mai tentato..” Hancock: “Miles, ma il pubblico si seccherà…..”. Davis: “Voi pensate a fare quel che vi ho detto. Al pubblico ci penso IO”. Ancora sulla nota polemica sulle spalle rivolte al pubblico durante i concerti: “Non mi interessano le chiacchiere od il rumore di bicchieri in sala: io devo controllare quello che succede nella mia band”. Anche qui Carlos Santana (che pare ormai un ospite fisso dei documentari jazzistici) consegna delle testimonianze acute e fulminanti su una scena musicale diversa dalla sua, ma di cui palesemente ha subito il fascino.

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Miles ed il suo ‘uomo delle idee’: Wayne Shorter, l’unico che riuscì a riempire il vuoto lasciato da Coltrane nel mondo musicale di Davis

Nelson riesce tuttavia a far balenare anche ai jazzofili più tossici delle interessanti suggestioni, delle ipotesi di spiegazione di quello che resta l’ ‘enigma Davis’. In primo luogo quella che chiamerei l’insicurezza sociale, il costante senso di minaccia che lo ha sempre accompagnato: a St. Louis il fatto di esser figlio del secondo uomo più ricco dello stato e pure personalità politica di rilievo non lo mette al riparo dal razzismo dilagante (“St. Louis? Tutta vera gente di campagna … Jim Crow lo trovavi in ogni angolo”). Il Miles star dei primi anni ’60, quello che appare sulle copertine delle riviste di tendenza, che si dà del tu con Leonard Bernstein e gran parte dell’intellighentsia e del jet set newyorkese sembra per un momento dimenticarlo: ci pensa il manganello del poliziotto a ricordarglielo, e da allora sarà solo amara, intransigente, sprezzante chiusura sociale. La musica rimarrà il solo, criptico canale di comunicazione con il mondo. Una vocazione stoicamente seguita sino in fondo, nonostante il profondo rimpianto per la consapevole rinunzia alla ‘terra promessa’ di felicità e riconoscimento conosciuta a Parigi nel 1949 e nel 1958 (la passione poi negata con Juliette Greco, le notti nei club con Sartre ed il meglio della cultura francese, lo splendido ed irripetibile exploit della colonna sonora di “Ascensore per il patibolo” di Louis Malle –un ‘tossico di jazz’ anche lui).

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Parigi, 1949. Miles e Juliette Greco. J.P. Sartre: “Juliette è pazza di te, sposala”. “Non posso, la amo troppo, la renderei infelice”

E poi c’è il ‘cool’: il Miles determinato e consapevole modello di stile che sedusse un’intera generazione di giovani neri, gli abiti di Caraceni, l’infinita collezione di Ferrari, Porsche e Lamborghini, la rischiosa pratica della boxe, la lunga serie di donne splendide pronte a tutto per lui…. Il musicista che telefona al presidente della Columbia ed impone per la prima volta una donna nera sulla copertina del suo ‘Some day my Prince will come”: ancora sua moglie Frances, all’epoca una straordinaria somiglianza con Claudia Cardinale…. un ottimo affare per la major, ritornerà anche sulla cover di “ESP”.

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Una foto che racconta di un legame anche intellettuale. Fu Frances a trascinare di forza Miles ad assistere ad uno spettacolo di flamenco. Poco tempo dopo, Davis ed Evans entravano in studio per registrare “Sketches of Spain”  

Altro punto a favore del film è l’evidenziare le ripetute traversie mediche di Davis, ed il lungo carico di dolore fisico e solitudine che porteranno: l’operazione alla gola che gli lederà per sempre le corde vocali lasciandogli per sempre in eredità una voce strozzata e luciferina (ma qui il nostro ce ne mise del suo con le sue intemperanze verbali), la successiva maldestra operazione all’anca che costò mesi di sofferta riabilitazione e che lascio’ una permanente vulnerabilità su cui diabolicamente andrà a colpire l’incidente stradale degli anni ’70: c’è soprattutto questo dietro il lungo ritiro dalle scene dal 1975 al 1981. Questo carico di dolore fisico porterà con sé nuove dipendenze, questa volta da ‘droghe del Sistema’ (cocktail di antidolorifici, antidepressivi, cocaina…), dipendenze dalle quali riuscì ad affrancarlo accettabilmente solo la tenacia di un’altra donna, Cicely Tyson.

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Cicely, la wonder woman: riesce ad imporre anche un anno di ferrea dieta vegetariana. Miles supplica gli amici di fargli anche solo annusare una bistecca…..

Altro raggio di luce in quegli anni bui: una passione compulsiva per il disegno e la pittura, sfogata anche nelle notti insonni successive ai concerti, e con esiti tutt’altro che banali.

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Un Davis: non sembra Basquiat?

Dove a mio avviso Nelson perde qualche punto è nel racconto della controversa ‘svolta elettrica’ del 1969 (in realtà in incubazione da prima, quantomeno da ‘In a silent way’, se non da ‘Filles de Kilimanjaro’). Ci sono accenni e testimonianze che possono indurre uno spettatore frettoloso a concludere che si sia trattato solo di una questione di denaro, di invidia per le star del rock che in pochi anni accumulavano fortune colossali. Ed invece erano le platee semivuote dei club jazzistici del 1968 ad incupire Davis, come testimonia lo stesso film. Ed anche l’allontanamento del pubblico nero, soprattutto quello giovane. Il rapporto di Miles con il denaro è stato quasi sempre strumentale, un’arma di rivalsa che serviva a sostenere una vita di sfide, sempre vissute al massimo nonostante le circostanze. Ancora George Wein che parla del prologo dei concerti del rientro nel 1981: “Miles mi chiese di organizzare due serate; riflettei attentamente e gli offrii 70.000 dollari, con un anticipo della metà. Ero certo che non li avrei mai più rivisti, vista la condizione di Miles dal 1975 in poi”. Marcus Miller, uno della band: “Alla vigilia c’era la tensione di una scommessa azzardata: io andai a comprarmi una bella camicia nuova per l’occasione. Anche Miles si presentò in tiro: ma con una Ferrari nuova di pacca, gialla”. Seguirono altri dieci anni di musica, tuttora controversa. Ho un mio scolorito ricordo del 1991, secondo il quale l’eredità liquida lasciata dal trombettista ammontava a non più di 500.000 dollari: spiccioli per gli standard del music business americano, basti pensare che la sua ‘tromba blu’, realizzata su suo disegno dalla Martin, è stata recentemente messa all’asta dal chitarrista George Benson con una base di 100.000 dollari.

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Un ottimo cliente degli importatori di auto sportive…

Siamo ai titoli di coda, al 1991. Sfilano alcune patetiche immagini del concerto finale di Montreux, con Wallace Rooney che sostiene trepidamente con la sua tromba un Miles esitante che scruta uno spartito con gli occhiali calati sul naso. Per il nostro film di parole, io sceglierei invece un flashback, un ricordo di infanzia evocato dallo stesso Davis. Il trombettista in erba smania per suonare con il vibrato ed assilla il suo maestro di allora con richieste di suggerimenti tecnici. E quello di rimando: “Impara a suonare limpido e pulito, tanto quando sarai vecchio tremerai comunque, coglione”. Insegnamento indelebilmente assimilato, al punto che Miles non ha dato a nessuno la soddisfazione di vederlo invecchiare. Milton56

 

9 Comments

  1. A parte qualche eccesso nell’uso della “d” eufonica e le “suggestioni” (scusa, deformazione professionale), è un bellissimo articolo che, malgrado la lunghezza, si legge tutto d’un fiato, è davvero accattivante, coinvolgente, ben strutturato, ricco di dettagli e trasmette molto bene le tue emozioni.
    Appena sposata, regalai a mio marito un’autobiografia di Davis con Quincy Troupe, e come dedica (dato il mio caratteraccio) scrissi “dalla tua prima moglie”. Ma dopo trent’anni sono – credo – ancora la prima.
    Ma la cosa importante che mi farebbe piacere sapere, anzi, che mi preme proprio sapere, è se il film è disponibile in DVD, perché sarebbe un ottimo regalo di Natale per un altro “tossico”, ma interesserebbe molto anche a me, anche se – a parte qualche eccezione – non amo particolarmente Davis (e te pareva!), proprio per la sua tromba dal suono troppo pulito.
    Ormai avrai capito che prediligo “lo sporco”… Magari potrei amarlo di più.

    P. S. In effetti, già prima di leggere la didascalia, la pittura di Miles che hai pubblicato sembra proprio un Basquiat.

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  2. Francesca, grazie, anche per le correzioni. Utile la domanda sulla pubblicazione in dvd del film di Nelson. Per quanto mi consta, il film si trova oggi nella fase di sfruttamento ‘theatrical’, cioè circola in un piccolo circuito di cinemini specializzati e presenti solo nelle grandi metropoli USA: qualcosa di simile alle nostre sale d’essai d’un tempo. E’ probabile che segua un dvd, ma credo che se ne parlerà tra diversi mesi. Considera che quello di ‘Blue Note, beyond the notes”, proiettato nell’ambito JazzMi 2018, sta comparendo solo ora nelle librerie online europee. Un consiglio: attendete l’edizione europea del film e non fatevi tentare da quella americana: è probabile che siano tuttora in uso i ‘codici geografici’ che impediscono alla massima parte dei lettori europei di leggere dvd editi negli States, il solito Medioevo tecnologico. In ogni caso, tenere d’occhio il sito della Eagle Rock, produttrice del film di Nelson. Comunque anche “Chasing Trane” di Scheiman e “Blue Note, beyond the notes” della Huber sono due gran bei regali: il primo poi è in grado di strappare qualche palpitazione anche al coltraniano più cinico … oops, sono incappato in un ossimoro, Coltrane e cinismo sono agli antipodi.
    Sempre in tema di regali (passato, questo), è stato prezioso quello dell’ autobiografia di Miles scritta a quattro mani con Quincy Troupe è notevole e soprattutto utile: a parte il suo valore letterario di romanzo picaresco (Quincy Troupe era uno scrittore ed un intellettuale di vaglia, mica uno ‘scrittore ombra’, non a caso compare più volte nel documentario di Nelson), è un racconto illuminante su tanti ‘dietro le quinte’ della scena jazzistica degli anni ’50 e ’60, visti con un disincanto e con un’ottica sanamente ‘materialistica’ che quasi mai si riscontra altrove: su molte cose risulta più illuminante di paludate opere critiche che hanno anche loro faziosità e silenzi (ben dissimulati). Infine, un invito ad ascoltare bene Davis, tutto quanto: ad esempio, quello delle registrazioni ‘live’ degli anni ’60 (soprattutto ‘Live at the Plugged Nickel’) è molto diverso e molto meno ‘apollineo’ di quello dei dischi in studio e fa presagire non solo la ‘svolta elettrica’ del 1969, ma anche quella ancora più radicale e controversa del 1981. In ogni caso, è veramente l’ “uomo che ha cambiato tre volte la musica”, come da sua autodefinizione: io direi anche quattro. Stay tuned. Milton56

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  3. Grazie anche a te per la generosa risposta. Siccome il marito è anche molto contraniano (io, non molto, ma ovviamente My Favorite Things e A Love Supreme non si discutono), gli regalerò “Chasin’ Trane”!
    Poi, siccome resterò “tuned”, sono certa che verrò a sapere da te quando uscirà il DVD di Nelson, così mi preparo anche per il Natale 2020 (chi è che è tecnologicamente “medievale”? Europa o USA?).
    Sono andata a leggere anche il tuo articolo sul film della Huber (che sembra decisamente “corale”): accipicchia quanti nomi, importanti e che mi piacciono! E fatti che non conoscevo.
    Non so se riuscirò ad ascoltare “Davis, tutto quanto”.
    Mi sa che dal vivo non abbiamo nulla (altra “idea regalo”: Live at the Plugged Nickel), però del periodo che mi hai consigliato sì, molte cose, e in effetti ricordo di essermi stupita, a volte, quando mi è capitato di avvertire immediatamente quel suo suono ‘meno apollineo’. Con il weekend che inizia, sicuramente mi farò aiutare a recuperare un po’.
    A proposito della sua vicenda umana, nel film di Nelson è citato “You are under arrest”?
    P. S. “Chez moi” vi ho dedicato un brano… Ho avvisato Rob ma ovviamente in questo periodo ha altri pensieri.

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    1. “You are under arrest” non è espressamente citato nel film di Nelson, che del Miles post 1981 fornisce un ritratto soprattutto umano. Sul profilo musicale di questo ‘ultimo chorus’ del nostro – quantomai controverso tutt’oggi – prestissimo conto di mettere online una risorsa veramente preziosa e molto specifica sul tema.
      Quanto a ‘medioevo tecnologico’ sia gli States che l’Europa fanno entrambi del loro peggio: evito di partire per la tangente con mie filippiche sull’argomento (personalmente molto sentito), diciamo solo che si tratta di un uso delle tecnologie informatiche finalizzato a mantenere e creare barriere all’accesso a certi contenuti culturali, che diventano oggetto di una sorta di rendita di posizione esclusiva di soggetti detentori di diritti: quasi sempre non sono nè i creatori e loro più immediati successori, e nemmeno gli editori originari che hanno assunto il rischio della prima pubblicazione. Milton56

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    2. Ma chi mai avrebbe interesse a creare barriere all’accesso di certi contenuti culturali? O meglio: per quale motivo, sempre i soldi?
      Ieri e oggi mi sono fatta infliggere il Davis meno apollineo, ma per me non è abbastanza. Sonny Rollins, va bene per me (ascoltato dal vivo).
      Grazie per le dritte sulla Huber!
      Ho visto che il nostro Rob ha scritto un articolo, ma siccome tratta di un musicista che non conosco, approfitto di questo mio commentino per “vantarmi” di aver visto/ascoltato Max Roach dal vivo a Roma. Non sono riuscita a trovare tracce dell’evento, ma era all’aperto tra le rovine di Roma (Caracalla? Massenzio? Boh).
      Tuttavia, anche se il marito dice che nessuno avrebbe potuto sciropparsi un’ora e mezza di batteria, ho un ricordo piuttosto infastidito perché mentre lui suonava, un energumeno danzatore nudo si esibiva sempre davanti, impedendomi di concentrarmi su Max. Secondo me è stata una provocazione e, siccome sono una zappa, oso dire… una smargiassata (da “estate romana”).

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    3. Chi ha interesse a creare barriere all’accesso di contenuti culturali? Chi vuole in qualche modo ‘tesaurizzarli’, rarefacendone od annullandone la disponibilità, in modo da ottenere una rendita incrementata nel momento della loro centellinata riproposizione. Ad esempio, io ho vedute molto critiche sul ruolo del collezionismo nel campo jazzistico, che se da una parte ha sottratto al pubblico più ampio delle opere di grande rilievo, dall’altra ha creato dei veri e propri ‘miti’ fondati sulla rarità ed inafferrabilità a fronte di valore estetico di gran lunga inferiore. Intendiamoci: a volte sono gli stessi musicisti – oltre a qualche produtttore e suoi eredi – a rinchiudere in scrigni inaccessibili interi cataloghi, che rischiano un ingiusto oblio. Potrei fare dei nomi ben precisi, ma poi apriti cielo…..
      Danza e jazz, effettivamente connubio molto difficile, anche se ‘de tendenza’… Max Roach in qualche caso avrà esagerato, ma oltre ad essere l’indiscutibile caposcuola che era, faceva cantare una batteria di mille colori che quasi mai è stata eguagliata. Oltre ad essere uomo di grande integrità morale ed intellettuale, oltre che di rara signorilità. Quanto alle performance in solo, negli ultimi anni si è assistito ad una proliferazione del genere che fa rimpiangere a calde lacrime anche qualche eccesso di intellettualismo di Roach degli anni ’70/80. Il Miiles che ‘graffia’? Imprescindibile ‘Jack Johnson’ del 1970, per esempio. E poi questo, da far ascoltare soprattutto ai detrattori del suo ultimo periodo:

      https://www.allmusic.com/album/live-around-the-world-mw0000645588

      in streaming si trova facilmente, non si perde granchè rispetto al cd giapponese, che era purtroppo privo di precise indicazioni discografiche.
      Milton56

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    4. Ma io sono favorevolissima al connubio tra danza e jazz! Solo che preferirei le coreografie contemporanee “su” musica jazz, mentre se sul palco c’è sia il musicista che chi danza mi distraggo sia dall’uno che dall’altro, e mi dispiace. Una volta ho visto su Sky (quando ancora lo avevo) una interessantissima coreografia contemporanea su musica… di Schubert, ma sul palco non c’era nessuno che la suonava.

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  4. Ecco qui la Eagle Rock, che tra l’altro ha coprodotto anche ‘ Blue Note Records, beyond the notes” di Sophie Huber:
    https://www.eagle-rock.com/
    Quessto dvd è anche in vendita su una nota libreria online italiana, il che risolve molti problemi di spedizione, incognite doganali etc. Da monitorare, a mio avviso per qualche mese a venire. Milton56

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