Cartoline. Broken Shadows a Ferrara

Eccoci di nuovo al Jazz Club Ferrara, da cui parte la piccola tournee’ italiana di un’interessantissima formazione che inserisce due lodati Bad Plus (Reid Anderson al basso e Dave King alla batteria) in un contesto molto lontano da quello in cui sono soliti muoversi: ad affiancarli è infatti una front line costituita da due sassofonisti da tempo impegnati sulla cutting edge della musica di ricerca: Tim Berne all’alto e Chris Speed al sax tenore.

La band ha una missione che è iscritta nel suo stesso nome: ‘Broken Shadows’ è un disco che raccoglie alcune eterogenee incisioni dei primi anni ’70 di Ornette Coleman, affiancato da versioni più estese del suo noto quartetto con Dewey Redman, Charlie Haden e Billy Higgins.

Un omaggio non scontato, dal momento che di Ornette lo si celebra solo nelle feste comandate, ma la sua musica molto raramente viene riproposta in forma diretta, e ciò ad onta dell’appeal che oggi molte sue composizioni potrebbero avere anche su di un pubblico ampio.

Che qui si sia lontani dall’evocazione celebrativa lo testimonia già la linea dei fiati, in cui si manifesta una curiosa inversione dei ruoli: l’originalissimo tenore di Speed è lontano dalla corposità è ruvidezza di quello di Redman, è invece caratterizzato da un suono chiaro, svuotato di corpo e filtrato da ogni vibrato ed ogni asprezza metallica, e sviluppa un fraseggio frammentato ed a tratti erratico: sotto questo profilo appare conseguente, anche se comunque sorprendente, l’opzione del clarinetto, ahimè per un solo brano. Il necessario contraltare è l’alto di Berne, che rompe la scena con una maggiore assertività e pienezza: è un Berne diverso da quello che abbiamo conosciuto anni orsono, meno incline ad asprezze e violenze foniche, e più riflessivamente concentrato sulla costruzione e sviluppo di lunghe linee melodiche (uno degli assi portanti del mondo ornettiano, del resto).

Le ‘Broken Shadows’ di Berne & Co a Philadelphia nel 2018. Registrazione amatoriale, purtroppo un po’ approssimativa

Pur con l’ovvia distanza imposta dal tempo e dall’asimmetria delle formazioni, va detto che l’approccio di Berne e co. alla musica colemaniana è rispettoso e niente affatto predatorio, la sua anima emerge con nitidezza: le limpide esposizioni iniziali e finali dei temi con curati unisoni dei fiati (impeccabile l’amalgama delle voci di Berne e Speed) sembrano voler sottolineare le sue ascendenze boppistiche.

Altrettanto originale è la scelta di una ‘ritmica’ come quella di Anderson e King: Il batterista non smentisce la sua reputazione di infaticabile generatore di un beat spumeggiante ed impetuoso, ma in questo contesto riesce anche slittare su un registro diverso, molto più secco e scandito negli accenti. Ferma la sua ben nota ‘presenza scenica’, questo drumming così variato ed alterno rappresenta senz’altro un tratto distintivo rispetto all’originale modello ornettiano. Chi invece pensa a toccare doverosamente corda della nostalgia è Reid Anderson, che evoca un Charlie Haden forse meno irruente e passionale, ma senz’altro dotato della stessa nitidezza di pronunzia, della stessa pienezza di cavata e soprattutto di una fluida narratività che emerge nelle ampie finestre solistiche riservategli.

Song for the Che’ da ‘Crisis’, un album capitale e caldamente coinvolgente, incredibilmente ‘desaparecido’: insondabili misteri della discografia

La riproposizione del corpus colemaniano ovviamente sconta i cinquant’anni ormai trascorsi, anni in cui esso è spesso apparso come un sentiero laterale e quasi ingoiato dalle sterpaglie rispetto alla grande pista del jazz di fine secolo: ma l’attenta lettura di Berne & Co. è apparsa anche molto accorata e partecipe. Il calore dell’eredità colemaniana è emerso con particolare evidenza in alcune felici scelte di repertorio, come un ‘Song for the Che’ che viene da ‘Crisis’, splendido live del 1969, e soprattutto da un bis finale concesso con una ‘Lonely Woman’ spogliata di ogni ogni patetismo ed offerta in una precisa, limpida esposizione priva di momenti improvvisativi individuali.

Ahimè, altra musica che rimarrà nel vento (e nei ricordi del caldo e complice pubblico del Torrione), come ci suggerisce l’infaticabile Francesco Bettini del Torrione, che lavorando tra le quinte di questa rivisitazione colemaniana ne ha percepito la valenza prettamente intima e personale per i musicisti (particolarmente evidente nella gioia e nell’abbandono alla narrazione di Anderson e King). A quanto sembra, esiste una documentazione discografica di questa interessante esperienza (come attesta il video in chiusura dell’articolo), ma è come se non ci fosse, data l’impostazione programmaticamente elitaria ed il costo assolutamente proibitivo della pubblicazione (prima o poi bisognerà riflettere sulle molte iniziative di questo tipo che continuano a fiorire……) Peccato….. . Milton56

‘Dogon A.D.’, un omaggio di Berne al suo maestro Julius Hemphill. Da questa sessione  è uscito un LP inserito in un box di 5 dischi (di altri gruppi), acquistabile in sottoscrizione ad oltre 400 euro. Mah……

2 Comments

  1. La sera dopo,il 2 febbraio li ho avuti ospiti alla Casa del Jazz a Roma.Abbiamo registrato il concerto per una messa in onda
    su Radio Tre in data da confermarsi da Pino Saulo.Condivido l’entusiasmo per il progetto.Uno dei più riusciti di Berne in assoluto.Ascoltare composizioni di Julius Hemphill dal vivo oggi è evento unico.
    A Roma è stato uno dei più bei concerti ascoltato negli ultimi mesi.
    Con una confortante fitta presenza di musicisti in platea.
    Tim Berne mi ha confessato di essere alquanto perplesso sulla pubblicazione New Velle (solo vinile,niente cd,nessuna piattaforma) e di dover attendere qualche mese per ulteriori sviluppi.Sto cercando di portarli al prossimo JazzMi (22 ott-Nov 1).

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    1. Ringrazio Luciano Linzi delle buone notizie, e soprattutto auguro a JazzMi di aggiudicarsi un’altro passaggio italiano di questo bel gruppo, che merita di esser conosciuto da un pubblico più ampio: quella del Festival milanese comincia ad essere una vetrina importante, anche sul piano internazionale, come attestano i resoconti apparsi su alcune riviste americane.
      New Velle. Non vorrei esser frainteso: riunire in un box annuale dischi commissionati ai gruppi che sono emersi con maggior originalità in ogni stagione è un’ottima idea. I cofanetti sono evidentemente molto ben curati sotto tutti gli aspetti, il parterre dei musicisti coinvolti nell’iniziativa fa impressione….. ma impressionano anche i 400 dollari richiesti, che per i 6 LP del box Season Four fanno ben Us.Doll.66,00 a disco. Ancora più singolare è il prezzo in euro, ben €.436,36 oltre spese di spedizione, quando il nostro chiacchierato eurino quota 1,10 dollari al cambio ufficiale: un’altro esempio dell’economia delirante in cui ci muoviamo (e forse di un certo bizzarro isolazionismo autarchico che sta prendendo molti nostri amici americani, anche se non abitano a Washington in residenze neoclassiche 😉 ). Comunque prima o poi bisogna affrontare qualche serena riflessione sulle influenze non positive che il collezionismo esercita sul sempre più ristretto e precario mercato della discografia di qualità, che spesso è l’unica a documentare esperienze musicali innovative. Milton56

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