Perseguitato dagli standards

Come credo sia facile intuire per chi ci legge da un pò di tempo, qui a Tracce di Jazz pur essendo in pochi, le modalità, i gusti, le preferenzee la percezione della musica jazz sono profondamente diverse tra di noi. Ne abbiamo fatto motivo di scambio e di unione, proprio perchè la diversità è fonte di crescita e, molte volte, abbandonare i propri pregiudizi e aprire l’animo (e le orecchie) può arricchire e aiutare a meglio comprendere le altre persone (e le altre musiche).

Dico tutto ciò e titolo il mio post cosi’, non certo per contraddire l’amico Andrea (Andbar), al quale va tutta la mia stima per le belle recensioni e per la passione con la quale segue in particolare i musicisti italiani nei loro più disparati percorsi, ma per meglio esplicitare il mio rapporto con gli standards, in particolare con quelli che ormai da alcuni decenni i musicisti italiani hanno preso come parametro e riferimento: le canzoni, i cantautori e, in alcuni casi, i gruppi rock degli anni 70′.

Comprendo benissimo i motivi per i quali un musicista suona un repertorio fatto di canzoni di Lucio Battisti o Fabrizio De Andrè: sono un facile richiamo, attirano pubblico (quale tipo di pubblico è facile intuire), trovano terreno fertile tra gli organizzatori e i direttori artistici, creano insomma ottime possibilità di lavoro, una buona visibilità e, forse, un migliore riscontro nelle vendite del disco.

Bene, tutto questo dura da troppo tempo. Ne ho le orecchie piene, trovo mortificante trovare le stesse proposte ripetute anno dopo anno, dischi inutili e concerti largamente prevedibili. Marchette ad uso e consumo di un pubblico di bocca buona, certamente non jazzofilo perchè alla lunga anche il più strenuo appassionato di canzoni anni 70′ non ne può più. Oltretutto, dispiace dirlo ma è una sacrosanta verità, spesso e volentieri questo genere di proposta fa amaramente rimpiangere l’originale. E che dire dei coccodrilli: appena un cantautore di un certo peso passa a miglior vita ecco spuntare immediatamente il Battiato in Jazz o orrori simili.

Poi ci sono i dischi rock, o almeno i brani del rock anni 70, trattati in chiave jazz. E’ il caso, cito un solo esempio perchè recentissimo, dell’ultimo album di Francesco Bearzatti, un musicista straordinario e che apprezzo moltissimo. Si tratta di Post Atomic Zep, un concept album tutto dedicato ai migliori brani dei Led Zeppelin. L’ho ascoltato con pazienza e complicità: lui è un rocker nell’animo, ma l’album è a mio parere abbastanza poco significativo, un divertissement che poco aggiunge agli indubbi meriti del sassofonista. Lasciatemelo dire: credo sarebbe una buona cosa se i jazzisti italiani lasciassero perdere rock e cantautori e si concentrassero sopratutto su proposte originali. Ovviamente è solo il mio pensiero, lo standard, comunque lo si intenda, è irrinunciabile nel book di ogni artista, e molti potrebbero obiettare non senza ragione che il rock o la canzone d’autore sono oggi i corrispettivi di Gershwin e Van Heusen, ma ormai è diventato per me un vero pregiudizio : album e/o concerti di quella fatta li schivo e me li risparmio. Perderò qualcosa? Può darsi, ma se oggi fatico a sentire gli originali del rock e del cantautorame, che pure tanto ho amato nei miei anni giovanili, perché devo sorbirmi le copie (spesso) sbiadite?

5 Comments

  1. Distinguerei tra cantautorato italiano e rock anglo-americano. Il primo declinato in chiave jazzistica mi convince a metà; mentre, per il secondo, sono maggiormente incline, specie se la matrice blues/R&B è fresca e vitale.
    Scendendo nel dettaglio: no a Battiato che è quanto di più lontano ci sia dal jazz, fatta eccezione per qualche richiamo all’avanguardia storica europea, ma perché no a un Tenco per esempio; sì invece a Zep, Traffic, King Crimson, Allman Brothers Band, Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service, BS&T, Chicago (quelli fino a metà anni Settanta) ecc…

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  2. Perfettamente d’accordo. Nella canzone d’autore la voce, anzi QUELLA voce è componente imprescindibile ed insostituibile, l’accompagnamento strumentale non regge da solo. Poi ci sono ragioni metriche e linguistiche che rendono l’impresa un azzardo di rarissima riuscita. Quanto al rock DOC, inutile far finta che non sia esistito, che non sia figlio naturale del jazz, che non lo sia amato in qualche sua forma e, soprattutto, che esso non faccia parte del mondo musicale di molti giovani jazzmen: illusorio pensare che possa esser rimosso come molti vorrebbero. Anche perché le ultime leve jazzistiche non hanno ereditato granché in termini di materiali musicali daibloro fratelli maggiori…. Milton56

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