La serata di venerdì prevede altri tre concerti, ma ormai le forze e la concentrazione iniziano a scarseggiare. Bene l’inizio con il trio di Leo Genovese, che si avvale di un grande della batteria, Jeff Williams, e di Demian Cabauld, già rodato con i Cosmic Brothers. A differenza di questi ultimi, Genovese suona diversi brani , tutti con un tema riconoscibile, salvo poi destrutturarlo, macinarlo, spacchettarlo in un empito free che tanto riporta alla mente Don Pullen. Il controllo della tastiera è pregevole, il rischio che la tecnica sopraffina prenda il sopravvento sulle emozioni è però appena dietro l’angolo, spesso i brani diventano un frullato di note sparate a velocità impressionante. In complesso un bel set, con appunto qualche piccola riserva.

Il concerto successivo è all’opposto, una performance soft basata sulla canzone, in cui il trio di Andreas Shaerer voce, Kalle Kalima chitarra e Tim Lefebvre contrabbasso, ricamano atmosfere soffici e piacevoli. Rilassante e con classe, indubbiamente, ma il peso specifico si rivela troppo leggero per incidere.
Ci sarebbe ancora il sestetto svedese Lena capitanato da Anna Hogberg, ma dopo sei concerti in nove ore anche il più duro dei jazzofili brama il silenzio e il riposo.

Il sabato mattina prevede la camminata all’alpe Steinalm con il quartetto di Zoh Amba. Musicisti con strumenti sulle spalle, aiutati anche da noi del pubblico, in un contesto di natura splendida . Poco più di un ora di salita con due performance in due punti panoramici del percorso. Passeggiata magnifica e musica assolutamente all’altezza della bellezza visiva.
Il primo concerto del pomeriggio vede sul palco il trio australiano dei Brekky Boy, musicisti a me del tutto sconosciuti. Leggo nelle note di presentazione della app del festival improbabili paragoni con E.S.T. o Bad Plus, più verosimile un accostamento ai Go Go Penguin, confermata dall’impatto dal vivo. Ma, complice una esagerata amplificazione della batteria, il basso praticamente non si sente e il tastierista si muove su un terreno ibrido che da un lato produce consenso ma dall’altro non convince pienamente . Un set a mio parere solo parzialmente riuscito.
Ottimo invece il trio portoghese di Luis Vincente , irrobustito dal formidabile Tony Malaby al sax tenore e soprano. Temi freschi e cantabili suonati all’unisono dai due fiati e sorretti da una fortissima sezione ritmica, Goncalo Almeida al contrabbasso e Pedro Melo Alves alla batteria. Il suono caldo del tenore si amalgama perfettamente alla tromba acidula e ficcante del leader in una sarabanda di assoli equamente distribuiti. Corroborante.

Se le tre piccole performance in quota del quartetto di Zoh Amba mi erano parse notevoli, il concerto serale è stata una apoteosi delle qualità dei singoli e del gruppo. Impressionanti le due ragazze, Zoh e Anna Hogberg, due persone minute e apparentemente miti e inoffensive, ma che, una volta imbracciati i rispettivi strumenti, diventano delle furie scatenate. Zoh ricorda nella potenza della emissione il compianto Peter Brotzmann, solo che fisicamente è uno scricciolo a differenza del sassofonista tedesco che era di notevole corporatura. Quando poi emette un suono vibrato, l’accostamento ad Albert Ayler è spontaneo e immediato. Ma le due sassofoniste non producono solo fischi, schiocchi, barriti e impressionanti borborigmi. Quando la tensione cala, la capacità melodica è coinvolgente, una limpida sorgente di assoluto valore. Fantastico l’apporto di Billy Martin, un batterista duttile e fantasioso. Una bella sorpresa il contrabbassista Lukas Kranzelbinder, che nell’ultimo brano accompagna deliziando con il douss’gouni. Magnifico.

Ci sono ancora due concerti, che si riveleranno preziosi e di grande fattura, ma ormai è notte fonda e rinvio le mie impressioni alla terza e ultima parte di cronache dal festival.
