L’estate è tempo di letture, si dice; archiviato il torrido exploit delle settimane scorse può esser una buona idea sfruttare questo suo mite e pigro finale di stagione per qualche lettura di spessore.
Di seguito vi affido alcune note su libri di argomento jazzistico che mi hanno notevolmente coinvolto ed in una certa misura si son rivelati sorprese inattese. Primo caveat: in questa rassegna si prescinde totalmente da criteri di attualità libraria, del resto con il pochissimo che si pubblica sul jazz in Italia c’è poco da correre dietro la novità del momento. Seconda avvertenza: anche inquadrati nella bibliografia jazzistica, tutti e tre sono libri ciascuno a suo modo eterodossi ed ‘eretici’, che richiedono al lettore un atteggiamento aperto e non schematico. Non che si tratti di letture difficili, tutt’altro: uno è addirittura un romanzo. Sono semplicemente libri ‘fuori dagli schemi’.

‘Liberare il tempo – Paul Bley e la trasformazione del jazz’ pone subito un problema insolito: chi è l’autore? L’ottimo editore Quodlibet saggiamente mette in copertina ‘Paul Bley con David Lee’. Eh sì, perché tutto parte dal progetto iniziale di girare un documentario sul grande pianista canadese: impresa difficilissima, data l’inafferrabilità e l’incostanza di Bley, che però di quando in quando (spesso con intervalli di mesi ed anche di anni) invia a Lee delle registrazioni che avrebbero dovuto costituire l’ossatura della sceneggiatura. Accantonato definitivamente il progetto del film. Lee si ritrova con ore ed ore di discorsi di Bley, che a detta di tutti coloro che lo hanno conosciuto era conversatore brillante ed affascinante. Di qui l’idea di editarle in una sorta di biografia in prima persona. Un racconto che è anche un vivido affresco ‘dall’interno’ del mondo del jazz dalla fine degli anni ’40 sino a tutti i ’90, che si snoda dal Canada a New York, dalla California all’Europa (sia pur attraverso il filtro di Lee, peraltro molto sottile),
Bley emerge come un affubulatore brillantissimo ed a tratti ironico, che narra con nonchalance le tappe di una carriera straordinaria e poco nota: a partire dall’investitura ricevuta da Oscar Peterson quando ancora era uno studente adolescente, alle esperienze con Mingus e George Russell, all’incontro-confronto con Bill Evans, al gruppo formato con Ornette Coleman, Don Cherry e Charlie Haden: a quest’ultimo proposito, va ricordato che senza la temerarietà del talent scout Bley i tre ben difficilmente sarebbero usciti dal circuito di locali di infimo ordine in cui avevano debuttato. En passant, Bley può vantarsi di esser stato uno dei soli tre pianisti a suonare con Ornette, e per dipiù il primo.
Ma tra le pagine di ‘Liberare il tempo’ non si trova solo il fascino di un vero racconto picaresco, ma si tocca con mano anche la statura intellettuale del pianista, che con aria di non parere sintetizza in poche frasi complesse questioni estetiche e di teoria musicale che hanno determinato le evoluzioni radicali del jazz tra gli anni ’50 ed i primi ’60: credo che questa essenzialità e limpidezza esplicativa farà l’invidia di molti musicologi accademici. Leggerezza e trasparenza sono riservate anche al racconto di un’adolescenza non facile in una famiglia adottiva, ed alle tante durezze e precarietà della condizione materiale del jazzman anche in quella che universalmente è ritenuta l’Età dell’Oro di questa musica.
Qui potrete trovare dettagli su di un libro veramente prezioso, che costituisce un ulteriore colpo a segno della collana ‘Chorus’ della raffinata Quodlibet, che merita il nostro sostegno incondizionato per la qualità ed il coraggio delle sue scelte, oltre che per il raro pregio grafico di questi volumi, che faranno la felicità dei veri amatori dell’oggetto libro.
Bley con Steve Swallow e Pete LaRoca nel 1963: cliccate, perché ‘Footlose’ è album pressochè introvabile
‘Livre de chevet’, un libro destinato a metter radici sul comodino del lettore: un volumetto di consultazione, destinato a divenire una sorta di breviario laico per il suo possessore. Questa potrebbe esser la miglior definizione per ‘Il Profumo del Jazz’ di Arrigo Cappelletti, un libretto che mi piacerebbe che planasse su tanti comodini jazzofili. Cappelletti non è un musicologo, né uno storico, ma un pianista con molti decenni di carriera sulle spalle. Fa parte di quella generazione di ‘jazzisti selvaggi’ cresciuti da soli, consumando dischi e misurandosi con la assidua pratica del palco. E forse è proprio questo a dare alla sua indagine sulla natura ed essenza del jazz una vivacità e concretezza destinate ad affascinare il lettore. Certo, Cappelletti ha dalla sua lunghi anni trascorsi dietro una cattedra di liceo, e poi da ultimi di un Conservatorio, ma la forza del suo discorso è quella di una narrazione ‘dall’interno’ dei processi che presiedono alla creazione ed all’improvvisazione jazzistica. Cappelletti non si fa tentare dallo spirito di sistema, dalle simmetrie e dalle coerenze di una teoria ben congegnata per figurare nell’arena della critica: al contrario ci fa vivere le contraddizioni, le tensioni problematiche che percorrono l’esperienza jazzistica. Non esita nemmeno a mostrarci i ‘trucchi del mestiere’ indispensabili a mantenere su di un livello elevato una pratica musicale che non sempre può valersi di momenti di travolgente ispirazione o di situazioni ambientali favorevoli. Altro tratto peculiare dell’opera è quella di non condividere la ‘neutralità’ e l’equidistanza di tanta saggistica jazzistica: questo è un libretto a suo modo ‘militante’, che riflette orientamenti e trasparenti scelte di campo dell’autore: ed alcune di queste scelte sono ottimi antidoti a tante retoriche che sono moneta corrente oggi.

Qui troverete indicazioni per procurarvi l’aureo libretto, che è anche disponibile in edizione digitale a prezzo molto contenuto: un altro applauso alla coraggiosa Mimesis, che ha in catalogo altri titoli jazzistici in una bella collana dedicata alla musica contemporanea (visitate le relatve pagine del loro sito)
Eh già, Cappelletti è un grande ammiratore di Paul Bley…. I fili jazzistici si intrecciano sempre… un brano a lui dedicato durante una trasferta newyorkese in ottima compagnia
E veniamo al romanzo. scelta bizzarra, dirà qualcuno: in realtà anche gli storici di professione stanno rivalutando la grande efficacia descrittiva del vissuto di un epoca che ci viene da certa narrativa.

“Le strade d’oro” è un libro uscito negli Stati Uniti negli anni ’70, creando una grande eco soprattutto per la personalità del suo autore, Evan Hunter. Italoamericano divenuto celebre per la serie di romanzi hard boiled centrati sul detective Ed Mac Bain, sorprese tutti con questo romanzo-saga che parte dai i primi del ‘900 in un derelitto paese lucano per approdare alla fine nell’America alla deriva degli anni ‘70.
‘Strade d’oro’ potrebbe essere definito il Sogno Americano Ascoltato. Infatti il suo protagonista è Ignazio Di Palermo, italo-americano di terza generazione che ci racconta la sua America attraverso i suoi suoni: è nato cieco. Efficacissima la narrazione dei mille stratagemmi che servono ad un non vedente a guadagnarsi una limitata autonomia in un ambiente quotidiano. Ma ‘Iggie’ non ha nessuna intenzione di rimanere un povero bambino cieco dipendente dalla pietà, e si dedica alla conquista della sua fetta di American Dream con lo strumento di riscatto della musica.
Non è una strada facile: Hunter ci descrive minutamente le infinite difficoltà che un non vedente incontra nella pratica musicale, dalla lettura degli spartiti braille alla difficoltà di impadronirsi della disposizione della tastiera. Perché il nostro Ignazio è anche lui pianista. E ben presto si rivela un talento promettente al punto da uscire dal circuito degli istituti per ciechi ed essere affidato a un ruvido e scostante Maestro, che lo inizia alla dura pratica dei grandi autori della musica europea, Bach in primis.
Ma fuori preme il tripudio degli anni rooseveltiani: c’è un fratello che colleziona dischi jazz che ascolta con le ragazze in una stanza chiusa. E alla fine Ignazio rimane folgorato dall’ascolto di un disco di Art Tatum. Confessarlo al suo duro maestro, che dentro di sé già lo vede sul palco della Carnegie Hall, gli vale alla fine una drammatica e rancorosa scomunica. Non solo, ma dovrà mettersi in giro per il mondo per trovare qualcuno che gli insegni i segreti di quella nuova musica che non offre nemmeno il punto d’appoggio dei faticosi spartiti in braille. Arriva uno degli strepitosi episodi nei quali Evan Hunter affronta con ironia, disincanto e acutezza la descrizione della America degli anni ‘40 e ‘50 : Ignazio trova il suo mentore sul palco di un squallido localino, un pianista jazz nero che ha conosciuto tempi migliori, ma gode la fama di grande mestiere. Iggie dopo uno sfiancante assedio ha la meglio sulle infinite scuse e cialtronesche ignavie oppostegli: ha finalmente ottenuto un improbabile pigmalione, che però sino dal loro primo incontro gli lancia un ammonimento profetico che si realizzerà nelle ultime pagine del libro. E così inizia la seconda vita di Ignazio, a che ora diventa Blind Ike. Faticosamente, ma con determinazione, si ritaglia un suo percorso di apprendistato che lo porta a conquistare un suo posto nella fiorente scena musicale della fine degli anni 40. Ma la sorte gli riserva un’ulteriore svolta: nel naufragio di una tragicomica seduta di registrazione a supporto di una cantante, sessione in cui nulla va come dovrebbe andare, un produttore esasperato dalla necessità di portare un nastro purché sia alla sua etichetta finisce per imporre a Blind Ike ed alla sua band di registrare un brano riempitivo. Il ‘The Man I Love’ che ne esce diventa inesplicabilmente il brano della sua vita, che miracolosamente riempie di sé per tutte le stazioni radiofoniche nel giro di poche settimane. E qui inizia la terza vita del nostro: Blind Ike lascia la scena e cede il testimone a un Dwight Jamison, un nuovo nome per una nuova vita umana e musicale, quella del successo e dal denaro.
Anche in questo libro sono descritti in modo efficacissimo e disincantato i meccanismi della industria musicale americana, le durezze e le estemporaneità della vita jazzistica; il tutto con una ironia distaccata e irriverente che fa di Hunter un antesignano dei più scatenati e caustici Philip Roth e Woody Allen degli esordi. ‘Strade d’oro’ non è un libro per cultori del politicamente corretto: senza ipocrisie e con molta ironia e chiarezza vengono vengono illustrati i razzismi orizzontali e i pregiudizi che dividono ‘mangiaspaghetti’, ‘Schwarze’ ed ebrei immutabilmente fedeli al loro yiddish. I pochi canali di comunicazione tra questi mondi separati spesso corrono per le camere da letto: mirabili sono le esilaranti scene di seduzione (una costruita come un brano bebop) che avviano il povero Iggie a diventare strumento di molte e disinvolte fanciulle che ruotano intorno a lui, imprimendo delle impreviste svolte decisive alla sua vita. Ma è il jazz visto dal camerino che fa il fascino di questo libro per noi jazzfans. La precisione con cui Evan Hunter parla di tanti dettagli del mestiere e della tecnica dell’improvvisazione sono dovuti a una collaborazione assidua ed intensa con un suo amico pianista: la credibilità di questi passaggi è veramente assoluta. Cruda e priva di ipocrisie e anche la narrazione del ruolo che il crimine organizzato ha avuto tra le quinte dello show business. La scena in cui Iggie-Dwight al vertice del successo rifiuta di assoggettarsi un contratto discografico ‘amorevolmente’ propostogli da due uomini di Cosa Nostra e la successiva visita di due simpatici ‘paisà’ che gli chiedono gentilmente quale delle due mani vuole farsi rompere sembra il trailer di ‘Quei bravi ragazzi’ che Martin Scorsese girerà quasi vent’anni dopo.
Ma a metà anni ’60, dopo tanta ‘Lush Life’ si realizza la profezia dello scalcinato mentore nero: il mondo della musica cambia, il jazz non è più la colonna sonora del Sogno. Dwight lentamente tira i remi in barca adattandosi ad un piccolo cabotaggio da prepensionato di lusso. Un finale in minore, se non fosse per la civettuola cognata che manda a monte il suo matrimonio con seguito di burrascoso divorzio dalla moglie Rebecca e dal suo clan yiddish. Un disilluso ed amaro tramonto dell’ottimismo, non solo per il determinato ed appassionato ‘mangiaspaghetti’ che si è fatto largo nel mondo della musica, ma anche per l’America che ha raccontato con la sua musica, anch’essa disorientata ed in crisi di identità alla soglia degli anni ’70.
Qui troverete dettagli sul libro (disponibile anche in formato digitale). Un doveroso grazie al traduttore Costigliola, che a quasi cinquant’anni di distanza è riuscito nell’ardua impresa di rendere tutta la pirotecnica ricchezza e fantasia delle tante lingue e mondi che il romanzo attraversa in una turbinosa sarabanda. Un libro che mi è rimasto dentro anche a distanza di settimane dopo averlo riposto: credo che sarà così anche per molti di voi. Milton56.
Una libera associazione di idee ;-). Un ‘The Man I Love’ di Lennie non lo ho trovato, ma questo supplisce egregiamente
