Foto di Daniele Peruzzi
Non capita spesso di leggere parole così ispirate e toccanti. Non potevo non condividerle.
Su La Stampa di ieri. domenica 10 settembre.
È la musica a tenerlo insieme
di Stefano D’Andrea
O sono quello che lo conosce meglio, o sono quello che lo conosce meno, questo ho capito di mio padre. Mi chiamo Stefano D’Andrea ho 56 anni e non ho mai suonato uno strumento. Papà, che ne ha 82, tutto d’un colpo si è accorto di averli vissuti in apnea, nuotando nel mare della musica come un delfino, prendendo fiato solo per riposare, muovendosi rapido, misterioso, bellissimo, usando ogni istante per una nuova capovolta, che un po’ potevi immaginare, ma che forse nessuno aveva mai fatto, in uno spazio che pare infinito, dove gli altri pesci si fermano per ammirarlo, qualcuno prova a imitarlo e tutti lo raccontano agli amici. E lui si aggrega ad altri simili a lui, si muove con loro fino a quando va in profondità che nessuno può raggiungere per poi tornare su con salti e spruzzi, e respira l’aria come solo coloro che non appartengono a nessun regno, ma a tutti, possono, e divora pesci e pennuti, e gira attorno alle reti da pesca prendendole in giro, e nessuno si azzarderà mai a toccarlo, perché lui è il re, anche se non lo sa. Cammina, vola, se vuole parla ed è sempre pronto a sorprendersi per la forma delle alghe o la densità delle meduse. Lui è il mago del chemmefrega, quando nuota libero nel mare della musica. Ma ogni tanto si stanca, e non vuole credere che il tempo passi anche per lui, perché lui è immortale, e ha talmente tante cose in testa che se non le canta le scrive, e se non le suona le pensa, ed esse esistono, e prima non esistevano, come i neonati. A noi sembrano un po’ cose già sentite ma poi ci guardiamo in faccia e no, nessuno le aveva mai incontrate, è solo la creazione che continua attraverso di lui. E allora ci fermiamo e si sta solo lì ad ascoltare, e si dice grazie. E lui dice grazie a noi. Perché papà ha suonato di fronte a migliaia di persone ma qualche sera anche per una sola, e a lui non è mai cambiato nulla. È nato per fare quello e quello fa. Lui è il Maestro più Maestro che abbiamo mai visto o di cui abbia mai sentito parlare. Se non hai mai toccato una tastiera lui ti ascolta e ti aiuta come se fossi un diplomato in Conservatorio che però non ha ancora capito niente, di come si fa a far diventare musica le emozioni, e come si fa a far tornar emozione la musica. Li ho visti tutti, negli anni, questi uomini e donne che arrivano al suo cospetto e non sanno quasi neanche cosa chiedere, e lui gli toglie dall’imbarazzo parlando d’altro o suonando qualcosa, muovendo le sue pinne e mostrando uno slancio, o uno stallo, e suggerendo di farlo con lui. Ecco perché in questa estate che soffoca, vederlo in secca, senza cuffie che gli portino Thelonious Monk e senza voler mettere le mani sul pianoforte, corrode gli occhi, li fa lacrimare dall’attrito. Anche se è solo un momento, un giorno o una settimana, è una ferita, un dolore che speravo di non provare. Non è sbagliato che papà diventi anziano e si ammali, è nelle cose. E anche se brucia non mi fa perdere d’animo, perché certi animali sono sempre esistiti ed esisteranno sempre. Papà sta lì sulla poltrona di un moderno ospedale milanese, un po’ prima e un po’ dopo Ferragosto, mentre fuori noi ci affanniamo. Sembra un grizzly a cui fa male qualcosa, molto, e non può prendere più i salmoni a schiaffi, deve solo attendere e sperare di stare meglio, fermo sotto un gigantesco albero ruvido e solido, cincischiando con dei sassolini, forte dell’essere a casa ovunque posa la sua testa. Sta rannicchiato in un pigiama dell’OVS comprato per l’occasione perché lui di solito dorme in mutande, elegantissimo nell’acetato made in China. Poi un’infermiera entra in camera senza bussare e gli dice: “Dai Francesco che oggi ti mandiamo a casa”; e lui non fa un plissé. E allora capisco che sono quello che lo conosceva meglio, papà. Perché lo so che a lui non frega nulla di quei modi sgarbati che le persone usano per mantenere la distanza fingendo vicinanza, degli umani attenti al ruolo che ricoprono. In questo mondo dove tutti cercano di sentirsi adeguati, di essere ben giudicati, di pensare a se stessi, lui sa perfettamente che quella che lo tratta come negli anni ‘50 si trattavano i bambini scemi è solo una donna impreparata, annebbiata da turni logoranti, incapace di gestire la relazione con un essere umano che peraltro è il paziente di cui si deve prendere cura, dagli strumenti spuntati, dall’anima indebolita dal caldo e dalla sua vita per forza triste, se no sarebbe gentile. Lo sa perfettamente, lui. Sa tutto. E non gliene frega nulla. Perché lui in quella secca è di passaggio, mentre lei no. Lui appartiene al mondo mentre lei a quell’angolo di organizzazione, a quel mondo con “dinamiche”, capi e corsi di formazione online. Lui, quel “tu” gettato come una scopa per terra dopo aver spazzato per compito, non lo ha nemmeno sentito. Ha dato fastidio a me, che do del lei anche ai miei studenti, figuriamoci alle persone anziane, perché io sono un tutt’uno con il suolo, con la terra, perché i miei colori preferiti sono il marrone e il verde, perché io vivo in mezzo a costoro, conosco la pesantezza delle membra e in mare affogo, mentre lui lo percorre in lungo e in largo senza fatica. A lui serve lo sguardo di Marta, la donna che ha sempre avuto di fianco, le parole di un figlio e una figlia che si occupano di lui come di un figlio, e un medico che è apparso dal nulla con i modi giusti, senza paura di toccare un essere primordiale, un alieno, un mistero vivente. Arturo si chiama quest’uomo, che quando ha visto papà perdere un po’ di fiducia, un po’ di presenza, un po’ di futuro, ha preso i suoi manuali di neurologia e li ha riscritti con la penna magica. Ha ascoltato e parlato, ha pensato, ha chiesto aiuto, ha guardato con i raggi e con il cuore, e una mattina, mentre papà guardava la minestrina arrivare, si è presentato nella sua camera di ospedale con un pianoforte. “Lo usavo tanti anni fa proprio laggiù,” ha detto indicando una zona in fondo al corridoio, “mentre studiavo come praticante di giorno qui, e studiavo per diventare pianista e passare l’esame del terzo anno di corso con lei, di notte, Maestro.” Hai sempre avuto un’eccellente dinamica, gli ha detto papà tornando a sguazzare per un attimo nell’acqua che porta refrigerio. Arturo ha montato davanti alla finestra una tastiera poco ingombrante, dai tasti pesati e il colore del velluto a coste. Le medicine funzioneranno solo se tuo papà riuscirà a restare insieme, e lui ha bisogno di questo, secondo me, ha detto Arturo rivolgendosi a me sottovoce mentre papà piano piano, come mai piano ho visto uomo muoversi, si avvicinava alla sedia che prima era stata davanti alle carote lesse. Questo lo terrà attaccato, mi ha sussurrato, mentre le mani del pianista iniziavano a muoversi tra i tasti prima ancora che il corpo si mettesse in posizione seduta. Veloci, sicure, già alla ricerca di intervalli sconosciuti, di armonie note in cui accomodarsi per poi avventurarsi in melodie spericolate. Papà si era rituffato nel suo mare perché qualcuno si era preso cura di lui. E io prego dio che quando ne avrò bisogno, avrò la fortuna di incontrare qualcuno che mi guardi e capisca cosa mi serve, anche se io non lo saprò. Che sia una carezza o una flebo non importa, basta che sia un gesto d’amore. Perché non c’è altra cura che quello.
Auguri di pronta guarigione da tutti noi
