Ci sono concerti ai quali si va con un poco di trepidazione. E ci sono concerti da cui si esce con il cuore più caldo. Il 31 dicembre scorso al Teatro Mancinelli di Orvieto sono successe entrambe le cose.
Enrico Rava è uno di quei musicisti di cui ormai si è perso lo stampo: in Italia li contiamo su meno delle dita di una mano. Uno di quelli che non hanno bisogno di crearsi un personaggio da promuovere freneticamente: semplicemente perché personaggi lo sono già naturalmente con la loro storia di vita. Vita che fa tutt’uno con la musica, in nodo inscindibile. Impossibile quindi tenerlo lontano da un palco, nemmeno dopo tutte le recenti traversie che ci hanno fatto parecchio preoccupare.
E’ stato comunque un sollievo vederlo di nuovo in lizza, appollaiato su uno sgabello da bar, per di più alla testa di una nuova, giovane band. Dobbiamo pensarla così in parecchi, a giudicare dall’oceanica acclamazione che ha accolto l’annunzio della sua entrata in scena al Mancinelli: mi sbaglierò, ma credo che gli abbia tolto dalle spalle qualcuno dei suoi 84 affollatissimi anni.
Anche se non ama sentirselo dire, ancora una volta Rava ha tenuto fede alla reputazione di talent scout mettendo in campo un’altra ‘Rava band’, da cui usciranno altri giovani musicisti che dopo faranno molta strada con le loro gambe, com’è accaduto a tutti i ‘Rava boys’ delle ultime leve.
Questo gruppo ha un organico molto particolare, con una frontline ‘tutta ottoni’, il flicorno del Venerabile Leader ed il trombone di Matteo Paggi, un altro italiano d’Olanda (!).
Altra nuova linfa viene dalla giovane batterista Evita Polidoro, e che linfa. L’equilibrio della formazione è assicurato da due apporti di esperienza, il fido Francesco Diodati alla chitarra ed alle elettroniche e Francesco Ponticelli al basso acustico, finalmente strappato alle consolle del suo studio di registrazione da cui sono uscite già alcune raffinate produzioni del giovane jazz italiano.
Il Rava strumentista è in gran forma, le sue frasi arabescate ed un poco astratte sfilano con articolazione ed attacchi impeccabili: come di consueto nel vasto mare della sua musica si avvistano come isole i temi a lui cari, dai quali si balza per nuove esplorazioni per poi ritornarvi da altro versante. A volte vengono usati come veri e propri segnali che orientano il flusso incessante della musica.
Da subito spicca il protagonismo energico del trombone di Paggi, che con il suo drive inesauribile sembra svolgere un poco la stessa funzione di deuteragonista che aveva Bearzatti in Special Edition: il controcanto energico e passionale del lirismo laconico ed un poco astratto di Rava. Il contrasto è anche riflesso nei timbri: aggressivamente e concitatamente ‘growl’ e ‘jungle’ quello del trombonista, chiaro e leggero quello di Rava. I frequenti unisoni dei due sono veramente perfetti, però: la grande intesa tra i due si sente. Il Rava talent scout involontario ha messo a segno il primo colpo da maestro.
La conduzione del gruppo è affidata ad una mimica minimale, quasi da teatro kabuki: il leader si mette di fronte ad uno dei suoi, lo fissa intensamente ‘inquadrandolo’ con la campana del suo flicorno e magicamente il filo del discorso musicale passa fluidamente al prescelto.
Decisiva per la coerenza della trama d’insieme è l’elettronica di Diodati, che crea ampii sfondi che preparano ed accompagnano le uscite solistiche. Molto notevole è anche il suo lavoro raffinato ed ardito alla chitarra che aggiunge ulteriori colori sfumati alla già ricca palette del gruppo, di cui rappresenta irrinunciabile elemento strutturale: sua è la sottile trama che fa da tessuto connettivo del gruppo.
Altro contributo d’esperienza viene dal basso di Ponticelli, leggero ed arioso, ben amalgamato nella tessitura a maglie larghe dei Fearless Five.
Uno dei più spiccati tratti di originalità della band viene dal beat della giovane Polidoro: leggero, incessante, pieno di colori leggeri. Per dirla con un termine sportivo, siamo ad un’incollatura dal drumming di Morello, per me il miglior batterista sentito ad Orvieto: e teniamo presente che stiamo parlando di una ragazza di 19 anni…. Più che meritato il caloroso successo personale ben distintamente percepibile pure nell’atmosfera arroventata in cui si è svolto tutto il concerto. Secondo colpo a segno del non-talent scout. La Polidoro si è prodotta anche in un’aggraziata performance vocale, che però ha coinciso con uno dei rari momenti di stasi nella perfomance: la preferiamo con le bacchette in mano, almeno tra i Fearless Five.
Sin dall’inizio ho avuto la sensazione che quello di Orvieto fosse un appuntamento a cui anche Rava tenesse molto. La conferma è venuta alla fine di un brano tumultuoso di densa improvvisazione collettiva: il Fearless One si china a posare il flicorno, si volta e sfodera una tromba nuova di pacca: sarà quella che da tempi biblici un artigiano olandese stava realizzando su misura per lui? In ogni caso è seguita una bella prova di agilità e velocità, è ritornato il Rava trombettista, che così ha fatto un bel regalo a sè stesso ed al suo pubblico: immaginabile la reazione in platea. La tromba doveva esser protagonista anche del bis reclamato a furor di popolo, ma il destino cinico e baro ha fatto aggrovigliare il cavo del suo radiomicrofono intorno ad una sedia e quindi si è dovuto ripiegare sul fido flicorno più a portata di mano.
Dopo 80 minuti di energia profusa senza risparmio (altri avrebbero usato più cautela), il Venerabile Leader ed i suoi escono di scena in un’atmosfera da stadio. Che dire? La band c’è e funziona alla grande, già sta entrando in competizione con il New Quartet e la Special Edition: speriamo solo che abbia la documentazione discografica che merita, lesinata e talvolta anche negata alle precedenti. Nel frattempo correte ad ascoltarla non appena dovesse capitarvi a tiro. Milton56
Ancora una volta siamo fortunati: una bella clip del concerto di Orvieto. Notevole la regia video che testimonia bene lo stile di conduzione di Rava e la dinamica di relazione all’interno del gruppo: complimenti all’ignoto film maker
