Lettre d’Amérique – Django & Duke, 1946.

L’incontro tra Duke Ellington e Django Reinhardt appartiene di diritto alla storia del jazz. L’invito di Duke a suonare in America è ancora oggi leggibile come la creazione di un ponte ideale, sia pure del tutto provvisorio, tra Europa e Stati Uniti, sulle macerie ancora fumanti della seconda guerra mondiale. Accade infatti che nell’autunno del 1946 Django venga contattato dalla William Morris Agency mentre sta suonando a Zurigo, durante un tour elvetico che lo aveva visto sperperare tutti i guadagni dei concerti nei vari casinò, di cui la zona non è sprovvista. Ellington aveva sentito suonare Django a Parigi alcuni anni prima, non solo, si era intrattenuto in una breve jam con lui, cosa molto lontana dallo stile del Duca, ma testimonianza del fascino che il chitarrista in quel momento esercitava su tutta la scena europea. L’agenzia gli presenta quindi un invito personale di Duke Ellington a raggiungerlo quanto prima per un tour americano con l’ Orchestra che sta peraltro vivendo un periodo di eccelso splendore e popolarità. Ingaggio importante. Viaggio pagato. Fioriranno da qui altri aneddoti di vario tipo, è risaputo che il gitano, primo jazzista del vecchio continente a sbarcare negli States, fosse un uomo particolare, già dipinto in vita con abbondanza di tratti naif… e allora Django analfabeta, Django incapace di leggere una sola nota, Django giocatore d’azzardo, bevitore, sciupafemmine bohemièn e chissà quant’altro ancora. Del resto, sono molti gli studiosi autorevoli che si sono scervellati per capire come poteva essere sbocciato un fiore di questa grandezza in un contesto così difficile, come la sua nuova miscela di elementi jazzistici, gitani e francesi potessero confluire con tanta grazia nelle otto (!) dita che armeggiavano attorno a una chitarra. Fatto sta che il 26 ottobre 1946 Django sbarca negli States, senza chitarra, gliene affideranno una elettrica, e da entusiasta fan del bebop chiede subito in un misto d’inglese e francese : “Dove suona Dizzy stasera?” Paradossalmente la scoperta dal vivo di Dizzy e di altri pionieri del bop che tanto lo affascinava e che già connotava decisivi aspetti del suo stile avverrà in Francia due anni dopo, e non nel soggiorno statunitense, che lo vide girare come una trottola tra stanze d’albergo, pullman, lunghi viaggi e vita da orchestrale. Infatti, nonostante non ci sia manco il tempo di scrivere il suo nome sui manifesti, Django viene subito inserito come “Guest Soloist” in un fitto calendario di concerti che prevedono spostamenti di migliaia di chilometri.

Di quell’incontro non rimangono molte testimonianze discografiche, l’ingaggio ellingtoniano di tre mesi comprese come detto un gran numero di date dal vivo ma, ahinoi, non esiste alcun documento completo di quei concerti, con il cruccio dello stesso Duke, che in seguito rimpianse il non aver inciso quel passaggio (vedasi lo stralcio d’intervista in calce al pezzo). Le 4 tracce che ci sono state tramandate provengono dal concerto alla Civic Opera House di Chicago (10 novembre 1946) e vedono un Django ospite d’eccezione che entra in gioco a metà concerto, è la prima volta che si sente un’incisione di Django allo strumento elettrico e vengono eseguiti “Ride Red Ride“, “Blues Riff”, “Improvisation n.2” e “Honeysuckle Rose“, con il chitarrista che si prende in pieno la scena con sviluppi d’eccellente qualità ma con un sostegno limitato soprattutto alla strepitosa sezione ritmica dell’orchestra, e con il brano “Improvisation n.2” che viene eseguito dal gitano in perfetta solitudine, con la silente Big Band nel buio alle sue spalle.

Django Reinhardt with Duke Ellington and his Orchestra Shelton Hemphill, Harold “Shorty”Baker, Taft Jordan, Ray Nance, Cat Anderson (tp); Lawrence Brown, Wilbur de Paris, Claude Jones (tb); Russell Procope cl,as); Johnny Hodges (as); Jimmy Hamilton, Al Sears (ts); Harry Carney (bar s); Duke Ellington (p ldr); Django Reinhardt (elec-g solo); Oscar Pettiford (b); William “Sonny” Greer (dm) 1946 November 10 – Civic Opera House, Chicago

Tutto sommato, e tenuto conto che dopo questo concerto ve ne furono molti altri in cui il coinvolgimento dell’Orchestra potrebbe essere stato di livello anche assai superiore, in queste preziose tracce Django appare come un esotico corpo estraneo, i due mondi dialogano ma in breve l’incursione aliena rientra tra le quinte lasciando il posto al cantante Al Hibbler e alla consueta, rigogliosa narrazione squisitamente ellingtoniana. Resta nitida l’immagine di Django, solo con la sua chitarra, nel buio della sala di Chicago, col pubblico che ascolta in religioso silenzio la sua Improvisation n.7. Come scrisse Patrick Williams su Jazz Magazine “Dal 1937 al 1951 Django realizzò le sue opere di meditazione, assoli totalmente improvvisati, vaste architetture o semplici esplorazioni di un colore sonoro numerati da 1 a 7, senza che la numerazione corrisponda ad un ordine cronologico: il n.5 e il n.6 furono eseguiti prima del n.4, e ciò prova forse che queste improvvisazioni possedevano la consistenza di vere e proprie composizioni. Musica inclassificabile, che non richiama nè la tradizione europea nè quella afro-americana, la tonalità dominante di queste opere è la serenità. Musica della memoria, dove si fondono paesaggi, lingue, sentimenti e liberi sviluppi.”



La lettera riprodotta qui sotto, scritta dall'Hotel Henry Hudson di NYC all'amico Grappelli, è un documento di grande valore storico e porta con sè la tenerezza e la dolce malinconia per la semplicità di pensiero di Reinhardt ed è impossibile non vedere l'emozione che traspare dalla sua incerta calligrafia in stampatello, reperto di un tempo lontano, in cui giganti di questo calibro giravano la terra.

"Caro Stéphane, ti scrivo per dirti che le cose stanno andando magnificamente. Tu mi scuserai se non ti ho scritto prima, ma siamo in tour e non ho veramente avuto tempo. Tutti vogliono vederti a New York, mi chiedono quando ci sarai, allora gli dico che verrai presto. E sono così felici. Ma pochi giorni dopo il mio arrivo ho chiesto al sindacato (sindacato dei musicisti) per il nostro quintetto e mi hanno detto che era impossibile . Quindi, ho pensato di non prendermi la pena di parlargli di te. È molto difficile, potrebbe volerci del tempo ma un giorno verrai negli Stati Uniti. Caro Stéphane, non ho molte altre cose da dirti e allora ti parlerò del tour. È meraviglioso, la band ha un Pullman tutto suo! Tutti i musicisti ci dormono. Duke e io abbiamo un piccolo soggiorno a disposizione, con due letti. Duke è il più grande musicista. Spesso scrive musica dopo i concerti. Tutti i suoi capolavori...è eccezionale, Duke ha appena scritto un opera, è pazzesco. Ti dirò alcune città in cui abbiamo suonato, Buffalo, Cleveland, Kansas City, Cincinnati, Chicago, Boston, Detroit, Philadelphia, Petersburg, Norfolk, Roches ter, Toronto, Toledo, Omaha, San Francisco, e questa è solo la metà delle città in cui siamo stati. Non ricordo tutte le città. Quindi, ti rendi conto di quanto lavoriamo! Mio caro Stéphane, ancora una volta perdona la mia scarsa ortografia, ma spero che tu mi comprenderai.
Porta i miei saluti a Georgette, sai, la ragazza che lavora per la rivista musicale.
A presto!"
1946 – Lettre de Django Reinhardt à Stéphane Grappelli (1)
1946 – Lettre de Django Reinhardt à Stéphane Grappelli (2)

«Sono considerato il miglior chitarrista che sia mai esistito. Perlomeno qui, in questo paese. C’è uno zingaro in Francia, che è la cosa più bella che abbia mai sentito».

(Emmet Ray in “Accordi e Disaccordi” di Woody Allen)
Ecco il brano che Django dedicò alla Georgette salutata tramite Stephane Grappelli nel finale della lettera

Chiudiamo con un estratto da un intervista ad Ellington del periodo.

From an interview with Duke Ellington, Billboard, Nov. 23, 1946 :
“Django, you know what Django used to do ? We brought Django to America, we decided, after all our concerts were all booked and advertised, as Django was available, and I said bring him ! So we added him to the concert programme, for kicks, this is it. He’s a great man, he’s available, what the hell, I want to hear him myself, I don’t care if anybody else wants to hear him ! So we had his luxury sitting before us every night. I shall never forget, I think the first concert was in Indianapolis, and we used to have a wonderful audience there. I forget what spot I had him in, somewhere in the first part of the second half, something like that, first we’d put up something like ‘Honeysuckle Rose’, and people would say, ‘I think it is Django !’ But nobody had said he was going to be there or anything ! And then I would say, ‘We’re going to play, Django is going to state a theme and follow through.’ And so we would just hit him with a pin spot and he’d be sitting there, black out the whole stage, he’d state some theme, every night it was a different theme, and none of this stuff was recorded, what a horrible thing. He’d play these wonderful things and just sit there in the one soft spot, and just play and play. So much happening there. It was a gas. But you had to stay with him every minute because if a chick went by, he’d be behind her, if somebody was coming down the elevator and he sees a sharp chick, oh man ! He’d get in the cab with her, Django was too much man !”

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