Da un popolo all’altro: abbiamo appena lasciato quello di Zorn a Torino, ed eccoci di fronte a quello di Mehldau a Roma.

Siamo al Parco della Musica, ancora una volta da milanese rimango a bocca aperta di fronte a questa immensa struttura che ospita concerti di ogni genere quasi tutte le sere. Al trio di Mehldau è stata riservata la Sala Sinopoli: è quella in cui suona abitualmente l’Orchestra dell’Accademia di S.Cecilia, il dettaglio è quanto mai significativo. Questo ambiente dotato di ogni più recente ritrovato della tecnologia acustica è pieno sino all’ultimo posto: ulteriore meraviglia, Brad è figura di primissimo piano nel jazz contemporaneo, ma vedere oltre 1.100 persone riunite per lui fa una notevole impressione a chi come me è abituato alla vita grama della scena milanese. Il popolo di Brad è quantomai vario, soprattutto per quanto riguarda l’età, ci sono parecchi ventenni e trentenni: di primo acchito mi sembra una bella platea non solo colta, ma anche alquanto appassionata, come confermerà il prosieguo della serata.
Il trio di scena è nuovo alle nostre latitudini: a fianco di Mehldau al piano si vedono Jorge Rossy alla batteria e soprattutto Felix Moseholm al basso (ovviamente acustico). Se il batterista è figura nota, Moseholm desta più curiosità: si tratta di un musicista danese, che in una vita musicale precedente ha frequentato al violoncello Bach (precedente molto rivelatore), prima di tuffarsi a capofitto nella scena jazzistica newyorchese dove ha riempito i suoi 27 anni di una ragguardevole e quanto mai varia serie di esperienze. Mehldau ha tenuto a precisare che suona con Moseholm da quasi quattro anni. Insomma, non ci troviamo di fronte ad una formazione d’occasione, tutt’altro.
E’ da tempo che non abbiamo testimonianze discografiche di Mehldau in trio, formazione nell’ambito della quale il nostro ormai ha creato un vero e proprio canone: il primo approccio al nuovo combo è alquanto sorprendente anche per chi ha incontrato più volte il pianista.
Video amatoriale, ma rende bene il clima: affrettatevi a vederlo, potrebbe facilmente sparire sotto le grinfie della Polizia del Pensiero che imperversa su YouTube. E ciò nonostante l’encomiabile correttezza dell’autore (vedi descrizione della clip)
Mehldau propone infatti un pianismo ridotto all’essenziale, fortemente interiorizzato e concentrato. Le sue mani non si allontanano quasi mai dalle ottave centrali della tastiera: c’è una deliberata rinunzia al gioco di contrasti dinamici marcati ed a colori saturi e densi. E’ immediato il paragone con l’acquerello, tecnica pittorica che a fianco di colori tenui e trasparenti esige una assoluta chiarezza e precisione del disegno sottostante. Viene da pensare che gli sia rimasto nelle mani e nella testa molto di quel Bach che ha frequentato per le sue ultime registrazioni.
Le scelte di repertorio si basano in parte notevole su suoi brani d’antan, filtrati però da questa nuova attitudine trattenuta ed insieme nervosa. Spiccano però anche alcuni standard moderni che mi hanno colpito.
Ecco l’originale del 1960: un raro trio coltraniano senza pianoforte
‘Satellite’ non è stato certo un omaggio rituale: attraverso il suo nitido understatement Mehldau ha fatto sottilmente filtrare la passione e lo slancio estatico di Coltrane, figura che appare sempre più gigantesca quanto più ce ne allontaniamo, come ha osservato il pianista.
‘Estate’ di Bruno Martino non è un gesto di compiacenza verso il pubblico italiano, il sobrio e laconico Brad è lontano le mille miglia dalla piacioneria di un certo ‘pianismo da crociera’ che circola dalle nostre parti. Questo è l’unico song italiano presente nel Real Book, e per di più è la scelta di elezione soprattutto di pianisti raffinati ed intensi come Roger Kellaway o Michel Petrucciani. Ci credono, punto e basta. La versione di Mehldau puntava a far affiorare una sottile di vena di bossa nova, ma l’esposizione del tema e l’inizio dello sviluppo sono stati molestati dal solito idiota che non ha silenziato il cellulare, la cui suoneria ci ha deliziato sino alla sua uscita dalla sala (sbattendo la porta….).
Con altri sul palco questo episodio poteva degenerare in una vera catastrofe, ma fortunatamente erano di scena dei veri jazzisti: Rossy ha prontamente integrato la suoneria nel suo ritmo, commentando con un ironico “Wow, funziona!’. Risate generali, anche questa è improvvisazione
Si attendeva al varco Moseholm: egli ha deliberatamente sacrificato la pienezza del suono ed i suoi colori più scuri per ottenere un fraseggio più agile e nervoso, in grado di seguire l’ininterrotto ed aereo flusso di idee di Brad. Scelta felice, il bassista risulta pienamente integrato nella fisionomia di gruppo: aggiungiamoci il drumming leggero di Rossy, quasi sempre basato sui tre piatti salvo qualche break un poco più marcato sui tamburi, ed abbiamo un’immagine di gruppo che tende a quella che francesi chiamerebbero la ‘clartè’.
Lucidità e precisione rigorose che non escludono la passione, chiaramente percepita da uno splendido pubblico, che partecipava anche commentando con sommessi brusii di approvazione le scelte di repertorio di volta in volta diligentemente annunciate dal pianista. Il quale ad un certo punto è venuto meno al suo impeccabile aplomb, rivolgendosi al pubblico con un improvviso “Sento tanta energia che mi viene da voi’
Che non si trattasse di una frase di circostanza lo si è visto in chiusura di concerto, salutato da un’ovazione oceanica quanto la Sala Sinopoli. Segue bis, ‘Up on a hill’, mi sembra, e sin qui siamo nel rituale di un concerto. Al termine, però, parte l’ovazione n.2, con tanto di grida di acclamazione: il trio risale sul palco, segue conciliabolo, e parte un ‘Nobody else but me’, chiaramente improvvisato sul momento. Dopo dieci minuti di uno standard rivisitato con un brioso relax, parte l’ovazione n.3, anche più intensa delle altre due. Dopo un paio di minuti, il trio ricompare sul palco ed un Mehldau percepibilmente emozionato annuncia a sorpresa ‘Annabella’ di Nat King Cole, altri 7 minuti di musica. Al termine, ennesima acclamazione oceanica: conoscendo Mehldau scommetterei che stava già pensando ad un quarto bis, quando Moseholm spegne risolutamente l’amplificatore del suo basso. Dopo più di 90 minuti di musica si chiude una serata veramente memorabile, in cui si è visto all’opera quello che io indicherei di primo acchito come il jazzman esemplare, quello che oggi esemplifica in sé il DNA più profondo di questa musica inafferrabile a detta dei più.
Questa serata romana fa sentire la prolungata mancanza di registrazioni in trio di Mehldau, che recentemente ci ha consegnato dischi in cui è apparso soprattutto come compositore per organici e materiali abbastanza inusuali ed originali. ‘Live in Rome, Parco della Musica’ avrebbe potuto essere uno splendido album…. Ma i rimpianti non hanno diritto di cittadinanza nel jazz. Milton56
Seconda fortunosa clip della serata al Parco della Musica: vale l’avvertenza di cui sopra
