Tu chiamale se vuoi, emozioni

“Benché si legga con la mente, la sede del piacere artistico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la più alta forma di emozione che l’umanità abbia raggiunto sviluppando la pura arte e la pura scienza.”
Vladimir Nabokov

 Se una persona è intelligente prova questa sensazione leggendo Cent’anni di solitudine o Le memorie di Adriano, oppure ascoltando la messa da Requiem di Giuseppe Verdi o A love supreme di John Coltrane, se invece non è ancora arrivata alla fase evolutiva del pollice opponibile rabbrividisce per Fabio Volo o Fedez. 

 
In questo desolante quadro schematicamente descritto si inseriscono le decine di (cosiddetti) festival jazz che ogni estate riempiono la penisola da nord a sud. Vi voglio mettere in guardia, parteciparvi non è senza conseguenze. Sono sostanzialmente divisi in tre categorie, con alcuni punti in comune. Tra questi, il più vistoso (e spesso senza vergogna) è la comunicazione sui media. Toni trionfalistici (magari avendo in cartellone autentiche ciofeche), numeri miracolosi (spesso, ad attenta lettura, del tutto ribaltabili), proclami improbabili di genialita’ maldestramente attribuite a nani e ballerine ampiamente bolliti da ere geologiche.


E veniamo dunque alla prima categoria dei festival, quelli alla camomilla. Sono i più numerosi e i più innocui. Programmi costruiti con l’ occhio al botteghino: un cantante che rilegge i propri successi risalenti ai tempi di Nino Bixio in chiave jazz. Che di solito significa qualche secondo di assolo del famoso trombettista, grato per la marchetta assai generosa. Poi l’ immancabile gruppo hiphop/neomelodico napoletano/rock lombardo veneto/heavy metal urlant ma con ambizioni jazzistiche e tante fans al seguito. In nome, naturalmente, dell’ apertura ai generi che solo sparuti talebani si ostinano a negare. In mezzo a tanto talento (sprecato) magari ci si infila anche uno, massimo due, buoni jazzisti. Purché non sporchino e non disturbino.


Non meno numerosi sono poi i festival dell’ assessore, solitamente personaggio che non distingue Allevi da Cecil Taylor (nel senso che ignora entrambi), la cui unica preoccupazione è non “spaventare” la propria cittadinanza con suoni inauditi o proposte indecenti. Di conseguenza, se il jazzofilo soffre di patologie cardiache, è preferibile ignorare tali rassegne che presentano il rischio concreto di imbattersi in Russell Crowe o, peggio ancora, Arisa. Immancabili le cover jazzificate (si fa per dire) del cantautore appena deceduto o del nume tutelare della musica folk della Groenlandia.


C’è infine una terza, e del tutto minoritaria, specie di festival jazz, frequentata da maschi anziani e barbuti, con lunghe tuniche bianche e simil bandane. Parlano un pashtun dialettale, sono molto litigiosi pur praticando la stessa religione: il free jazz . Sono raggruppati  in sette, perlopiù pericolosi a parole, armati di ogni feroce invettiva linguistica possibile, e si dividono in jazzisti/leninisti e radical free/punk. I loro festival si dicono “di tendenza”, ma quale sia nessuno l’ ha mai capito.
Se ancora siete tentati dal partecipare al festival vicino a casa, be’, sarà meglio che prima vi informiate bene a quali rischi andate incontro.

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