L’estate scorsa ci ha fatto prendere una bella paura . Successivamente alcune voci avevano fornito qualche motivo di rassicurazione sull’uomo. Ma solo alla fine di maggio scorso abbiamo tirato un vero sospiro di sollievo per il musicista grazie a questo:

Non solo, ma Summertime (stagione estiva di Casa del Jazz) ce lo ha riportato sul palco per il primo concerto del ‘dopo’: ho avuto la fortuna di esserci. Nel prossimo autunno sono previste ulteriori sue date (a Milano per JazzMi ed a Ferrara al Torrione, spero se ne possano aggiungere altre).
Nonostante i mesi difficili alle spalle, il nostro è riuscito a non venir meno alla sua reputazione di creatore metodico e puntuale. Non solo: ma la sua rentrée crea anche qualche stupore.

Negli anni scorsi ci eravamo abituati ad un D‘Andrea intento nell’incessante sperimentazione di sempre nuovi organici variabili non solo nella dimensione, ma anche nella strumentazione sempre più varia ed originale. Invece ora ci troviamo di fronte ad un classico trio piano – basso – batteria, un evergreen che Franco non frequentava da tempo. Un combo che singolarmente riunisce tre generazioni del nostro jazz: il ‘pioniere’ D’Andrea, il batterista Roberto Gatto emerso dalla schiera dei ‘jazzisti selvaggi’ che negli anni ’70 hanno rigenerato la scena jazz italiana, ed infine Gabriele Evangelista, young cat che sta mettendo a frutto un solidissimo curriculum accademico con una intensa e diversificata pratica del palco che lo sta trasformando in uno dei bassisti più richiesti del momento.

“Something blues and more” ha suonato molto a lungo all’inizio dell’estate sui miei lettori. E questo non dipende tanto dal suo presentarsi come una sorta di ‘disco della rinascita’: c’è molto di più e di diverso.
Innanzitutto c’è la scelta dei brani: a parte un ‘Exploration’ a firma di D’Andrea (titolo quantomai esplicativo), il resto della scaletta è formato da autentiche pietre miliari della tradizione afroamericana. Sulle più antiche – ‘St.Louis Blues’, ‘Livery Stable Blues’ – il giovanissimo Franco si formò nei lontani anni ’50; significativo vedere poi ben tre Ellington con un paio di firme di Strayhorn (‘Caravan’, ‘Half the Fun’, ‘The Telecasters’). Non è questione di celebrare estrinsecamente, ma più che altro di voltarsi indietro a misurare il cammino percorso, di specchiarsi nell’oggi in tappe di ieri. Di questi classici il pianista distilla la quintessenza, li filtra e li riplasma con il suo stile e la sua tecnica lucidamente innovativa ed originale. A volte la padronanza e la familiarità con queste pagine sembrano quasi tradire un minimo accenno di affettuosa ironia (“I’ve found a new baby” ), più spesso questi celebri temi emergono lentamente da dense ed esplorative introduzioni che in spirito democratico il leader affida spesso sia al drumming leggero e luminoso di Gatto, che al basso energico ed autorevole di Evangelista.
Il trio ha la capacità di scovare in questi notissimi brani le brecce verso il futuro, delle aperture nelle quali lo slancio e la creatività del trio si infilano senza esitazioni, si veda lo splendido ed intenso “Caravan”, ancora più misterioso ed esoterico dell’originale ellingtoniano.
Quest’opera di distillazione alchemica non si esercita solo sui classici che ormai datano più o meno un secolo, ma anche su di un caposaldo della modernità come il tema del movimento iniziale di “A love supreme”, forse il vertice dell’album. Quando D’Andrea incontra Coltrane (e succede con significativa regolarità, specie dal vivo) avviene sempre qualcosa di molto speciale. Nessuna contemplazione reverenziale dall’esterno, nessuna scontata riproposizione di una manierata attitudine estatica e convulsa che in anni lontani ci ha reso indigesto il ‘coltranismo’, una maniera che è riuscita a gettare per lunghi anni un velo di penombra sul maestro di Hamlet. Ne sono lontani sia il pianismo ‘problematico’ e denso di rifrazioni di D’Andrea che il drumming morbido e sfumato di Gatto. All’energico e determinato Evangelista tocca l’ingrato compito di misurarsi con l’ombra di Jimmy Garrison e della sua celebre linea di basso: una prova affrontata senza timori reverenziali e superata a pieni voti. Siamo in presenza di una vera ricreazione che però porta con sé tutta l’essenza e l’intensità del modello coltraniano: infatti mai come qui si nota di più come questo trio guardi sempre in avanti, sulla linea d’orizzonte ed anche al di là.
Spesso ho sentito definire D’Andrea “un musicista dell’intelligenza”, un apprezzamento con un’implicita riserva: la lucidità ed il rigore dello stile venivano ritenute una remora alla pienezza ed al calore dell’espressione, quasi una predestinazione ad un solo successo di stima in circoli ristretti. Certo, il nostro è uomo misurato e sobrio (praticamente un marziano di questi tempi), ma mai ristretto in una freddezza analitica od in un debordante narcisismo virtuosistico che invece sono stati moneta corrente e largamente accettata negli ultimi decenni.
Ed ora proprio ‘Something Bluesy and more’ viene a confermarci in modo più palpabile ed evidente la sottile vibrazione di emozione che il pianista è in grado di trasmettere, soprattutto quando sfoglia pagine che ormai sono parte integrante anche della sua storia personale. Un album speciale e destinato a rimanere, quindi: e non solo nella ricca discografia di Franco. Milton56
P.S. Un appello diretto al Maestro, nell’improbabile caso che ci legga: è bastato un solo album a farvci affezionare a questo caldo ed avventuroso trio. Lo faccia crescere ancora…….
Al cinema questo si chiamerebbe uno ‘spoiler’. Ma questo a ‘A Love Supreme’ è troppo intenso e rivelatore dello spirito dell’album per non proporvelo. Anche come stimolo a godervelo tutto il disco…
