Wendy (già Walter) Carlos, il Beethoven passato al Moog di ‘Arancia Meccanica’, 1972
Come i lettori più fedeli sanno, il ruolo di questa rubrichetta di pensierini ad alta voce è quello di puntare il dito su problemi aperti. Ed il rapporto tra jazz ed elettronica rientra certo tra questi, anche se è oggetto di una certa rimozione: il che non vuol dire che non ci sia, anzi, il rimosso è più problema di quello esplicitamente riconosciuto come tale.
Precisazione preliminare importante: qui non si parla di amplificatori e strumenti elettrificati, ma di sintetizzatori ed assimilati, di PC e tablet, di software più o meno autosufficienti ed autonomi. In due parole, elettrico ed elettronico, watt e bytes non sono sinonimi: l’elettrico è già stato metabolizzato da decenni nella storia di questa musica.
In conformità alla visuale di questo blog, guardiamo alla questione dalla prospettiva dell’ascoltatore, soprattutto di quello che ha alle spalle anni di frequentazione del jazz e che quindi ha di fatto una sua implicita e tacita idea dell’essenza irriducibile di questa musica, definizione che risulta invece quantomai problematica da articolare con chiarezza e rigore sul piano teorico.
Ad anni di distanza dalla penetrazione del digitale nelle musiche di derivazione afroamericana, il rapporto con esse da parte di molti ascoltatori risulta ancora difficile e problematico. E ciò nonostante una frequentazione ormai prolungata, e molto spesso decisamente volonterosa.
Diverso è l’atteggiamento di buona parte dei musicisti, per molti dei quali il mondo dell’elettronica appare una meravigliosa ed apparentemente inesauribile ‘scatola dei giochi’. A parte il fatto che il ricorso al digitale sembra rispondere ad una tendenza ormai diffusa ed imprescindibile, salvo chiamarsi fuori dalla corrente centrale della contemporaneità.
Ma nel buio delle platee l’arma irresistibile di seduzione del jazz è stata ed è tuttora la sua natura ‘organica’: una musica in cui uomo e strumento si compenetrano a vicenda, con il primo che cerca di imprimere al secondo il suo personale ed individuale marchio di stile, il sound proprio che lo fa distinguere da ogni altro. La fisicità, l’aderenza totale ad un ritmo vitale che è sempre elastico ed irregolare, è sempre stata una sua caratteristica irrinunziabile che la differenzia radicalmente dalle rigide astrazioni in cui è sfociata la musica accademica, soprattutto europea.
Nel campo del digitale, quantomeno negli esperimenti sinora messi in campo, queste caratteristiche di irriducibile individualità, di duttilità, l’uomo che sfida lo strumento anche forzandone i limiti tecnici, sinora non si sono visti. E stante l’attuale tecnologia, sembra anche difficile intravederli a breve.
Ma siamo equanimi, e rispolveriamo un’aurea massima della mia guida spirituale: “la musica è industria”, massime il jazz che si è sempre destreggiato tra condizionamenti materiali ed economici di ogni genere, largamente sconosciuti alla musica accademica europea.
La crisi di lungo periodo del mercato delle musiche indipendenti porta a esibirsi in formazioni sempre più ridotte e scarne, se non addirittura in solo. Chiaramente l’elettronica può surrogare degli effetti para – orchestrali nell’impossibilità di produrla con strumentisti umani: legittimo ed ingegnosamente creativo.
Ma in fondo alla brillante scorciatoia si nasconde un’insidia non da poco: l’insorgere di una sindrome di controllo individuale assoluto sulla musica, che esclude l’interazione dialettica con altri. Il mitico ‘interplay’, per intenderci. Persino l’ultimissimo Miles Davis, quello da ‘Tutu’ in poi, è stato sedotto da queste sirene: ricordo che ebbe a dire che se avesse potuto sarebbe salito sul palco da solo con al massimo la compagnia dell’apprendista stregone Marcus Miller, grande specialista di un’elettronica del 1986 che oggi appare come un tenero giocattolo. Ma subito dopo soggiunse: “Ma il pubblico vuole vedere la gente sul palco….”. Prima di dare la stura ad anatemi a mezza bocca contro il diabolico e cinico Miles, rammentiamo che la logica tendenziale di certi overdubbing e montaggi del Tristano anni ’50 si muoveva nella stessa direzione… ;-).
Questa tentazione solipsistica appare in radicale contraddizione con la caratteristica peculiare e innovativa del jazz: quella di essere una musica che si fa, si crea insieme, senza dare luogo alla dittatura del compositore onnisciente che ha portato la musica accademica europea ad un punto morto.
C’è invece un utilizzo dell’elettronica volto ad espandere i limiti degli strumenti acustici che si hanno nelle mani o per creare una trama connettiva tra gli stessi: questo utilizzo ‘complementare’ del digitale ha fatto capolino soprattutto in campo orchestrale con risultati piuttosto significativi e interessanti. Magari potremo assistere ad un ritorno di ‘big band in formato tascabile’: chissà, speriamo.
Ma ritorniamo alle fatali sirene incantatrici. Un’altra è quella della ‘musica ex machina’, dell’elettronica che si svincola completamente dal controllo umano e genera essa stessa in autonomia la musica, soverchiando addirittura l’intervento e il contributo dell’operatore umano che tenta di dialogare con la macchina. In una parola, ‘Blade Runner’ in musica.
Mettiamo anche tra parentesi il fatto che la “elettronica che fa la musica” quasi sempre finisce per generare sequenze non solo ripetitive, ma anche rigide e schematiche, agli antipodi di quella elasticità swing irrinunciabile nel jazz. Ma ci sono anche altre criticità.
In primo luogo, il ‘chi suona cosa’ è ancora una domanda imprescindibile per buona parte dei veri appassionati di jazz: una situazione in cui l’uomo musicista si confonde con l’androide musicale oltre che paradossale sembra anche sterile di quegli esiti di personalizzazione e creatività individuale della cui importanza si parlava prima.
Secondo. Alla luce degli sviluppi attuali dell’Intelligenza Artificiale, è abbastanza facile prevedere che essa sarà molto più abile nel gestire le possibilità combinatorie della vastissima panoplia dell’elettronica musicale di quanto non lo sia l’uomo creatore artigiano, che rischia concretamente di esser marginalizzato se non addirittura soppiantato. Soprattutto perché quest’ultimo spesso entra nel labirinto di specchi della musica digitale senza quella chiarezza di idee e senso della misura necessarie ad orientarcisi: nel labirinto di specchi la tentazione dell’aleatorietà è fatale.
Infine, un’ultima osservazione che nasce già dall’esperienza della musica live di oggi. In studio sono possibili molte cose, tra cui una completa messa a punto degli strumenti elettronici ed un loro pieno controllo. E comunque se qualcosa va storto, c’è sempre la seconda take. Possibilità che sul palco invece non si dà…. E dal vivo bisogna fare i conti con la babele delle incompatibilità informatiche, con gli incidenti tecnici, con l’indocilità di tanti software ed hardware. Quante volte si sono viste scappare di mano sequenze campionate, loop et similia con risultati tragicomici ed imbarazzanti. In poche parole, il musicista si trova a scontare quella che si può definire la ‘fatica dell’esecuzione’, che sottrae risorse e concentrazione al lavoro creativo che la composizione istantanea jazzistica richiede. Per tacere del fatto che spesso il pubblico noterà di trovarsi di fronte ad una versione ridotta e depotenziata delle produzioni elaborate ed ipercontrollate ascoltate su disco.
Comunque, e giusto per non passar per reazionari, questo papello è inframezzato da alcune clips che esemplificano momenti felici e promettenti dell’incontro tra jazz e digitale. Resta sempre il fatto che bisogna sempre esser pronti al reset radicale, come già ci insegnava nel lontano 1969 il profetioo e visionario ”2001 Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick. Milton56
Anno cinematografico 2001, astronave Discovery dalle parti di Giove. Il suadente mainframe HAL9000 è incorso in uno spiacevole ‘errore di sistema’ che ha trasformato in statue di ghiaccio gli astronauti ibernati per affrontare un viaggio di svariati anni luce oltre il sistema solare. Con logica inappuntabile procede a rimuovere le conseguenze dell’inconveniente assassinando anche i due astronauti vigili che cominciano a dubitare di lui. Il primo delitto riesce, ma con Keir Dullea/Dave è tutt’altro affare…….
Con una folle sortita senza respiratore Dave riesce a rientrare nell’astronave da un ingresso di emergenza, dribblando i blocchi apposti da HAL (provate un po’ a traslitterare una lettera avanti… 😉 ). Keir armato di cacciavite penetra nella camera che contiene le unità di memoria del mainframe….
E qui i doppatori italiani hanno un colpo di genio che surclassa l’originale americano: ascoltate la voce di HAL ‘in agonia’…. Dave ha pareggiato i conti, trasformaandosi però in un naufrago dello spazio-tempo su una nave ormai incontrollabile, alla deriva nelle galassie ulteriori..

Interessante articolo, come sempre, sul quale mi trovo pienamente d’accordo. Molto belli i brani scelti, dove jazz ed elettronica di fondono piacevolmente (bello Umbra e e la Suite). Grazie.
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Troppo buona. Mi rendo conto solo ora di essert stato un poco vago ed impreciso su Michael Leonhart, personaggio di grande fascino e pressochè sconosciuto in Italia. Le Suites di cui parlo sono ‘Suites Extracts vol.1″ e “The Painted Lady Suite” : sono disponibili in verisone integrale in questa più ampia compilation YouTube:
Per l’ultimo ‘Umbra’ di Stemeseder & Lillinger bisogna invece rivolgersi al Grande Fratello Svedese, è un album Intakt:
Buon ascolto. Milton56
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a tal proposito … https://jazzmi.it/events/israel-galvan/ c’è questo interessante concerto in arrivo
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esatto, ma ahimè non è chiaro se Leonhardt sarà presente di persona o solo in ispirito come arrangiatore delle musiche
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