Giacomo Merega/Joe Morris – “Opus dichotomous”

La prima e l ultima traccia sono diverse dalle altre, trasportano l’ascoltatore dentro e fuori da un luogo: le altre tracce sono quel luogo”. Una presentazione che accende la curiosità, lasciando spazio ad un minimo di inquietudine, per il viaggio dentro a questo “Opus dichotomous” (Infrequent seams) , punto di arrivo della collaborazione fra il bassista genovese trapiantato negli Stati Uniti Giacomo Merega, esponente della scena di improvvisazione e sperimentazione newyorkese da oltre un decennio, ed il veterano chitarrista, improvvisatore, compositore e didatta Joe Morris, partnership avviata fin dal 2011 e sviluppata attraverso tre produzioni perl’etichetta elvetica Hat Hut nel quartetto del sassofonista Noah Kaplan (“Descendants”, “Cluster Swerve” e “Out Of The Hole”).

L’opera in questione è dichiaratamente dedicata allo studio della dicotomia (divisione di un’entità in due parti che possono definirsi complementari) applicata alla composizione ed esecuzione musicale, qui rappresentata dal basso di Merega e della chitarra di Morris, più vari pedali.

La porta d’ingresso si apre sul fitto pullulare elettronico seguito da una progressiva rarefazione di segnali di “Real and not real, something like an opera” , quindi, seguendo le istruzioni iniziali, siamo trasportati dentro il tentativo di Merega e Morris di plasmare, attraverso l’improvvisazione priva di spunti tematici maturata in una singola session, un proprio linguaggio funzionale alla rappresentazione del titolo. La chitarra ed il basso seguono percorsi paralleli, si incrociano in brani che testimoniano un processo edificatorio di una peculiare dinamica ritmica – che potremmo considerare il loro swing – come “Quasicadenze”, fitta di un frenetico intrecciarsi di frasi chitarristiche o “The uninhabited song“, tenuta in precario equilibrio dalla velocità esecutiva, per tornare a dividersi in alternanza di ruoli che rende palpabile lo sdoppiamento del titolo ( “Tauromachy“). Altri spazi sono invece riservati ad un intenso sviluppo verticale del dialogo, nel quale prevale un’austera intensità (“Autopsy in blue“), una sotterranea inquietudine (“Vedova“), l’alternanza di stasi e concitazione (“Anteroom” ). “Trenody for the bourgeois improviser” svela, sotto l’ ironico ed emblematico titolo, una sorta di conciliazione fra le due tendenze citate.

Il percorso di uscita (Stabat mater) è delimitato da suoni eterei immersi in un clima onirico, dove all’intreccio materico dei brani precedenti viene riservata una citazione nel finale, un altro modo per ribadire la duplicità programmatica.

In questa musica si percepisce una storia ed un azzardo. L’insieme di esperienze maturate e di capacità esecutive acquisite dai musicisti, e la volontà di mettere tutto in gioco in un processo creativo totalmente libero e privo di compromessi. L’ascolto, data la totale assenza di riferimenti strutturali, rappresenta per l’ascoltatore una sfida stimolante e coinvolgente : ove praticato con la necessaria attenzione, e con le dovute modalità, permette di percepire un altra via per arrivare al cuore emotivo della musica.

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