Cyber Swing/Massimo Urbani

Rieccomi con quelli che un tempo si chiamavano tagli e ritagli (le frattaglie appartengono ad altro ambito). Questa volta pesco nel passato e nella carta stampata, il ricordo di Massimo Urbani che tratteggia Pino Corrias può essere utile per chi ancora non conosce Massimo ( se ne è andato 31 anni fa), ed è sempre interessante per chi invece lo apprezzava in vita. Con questo articolo inauguro ufficialmente la rubrica, Cyber Swing, che mi riprometto di riempire di articoli e segnalazioni provenienti da ogni ambito dei media, sperando di incontrare il favore dei lettori.

Conosceva le vertigini della musica, giocava con la vita, se la lasciò scappare. Massimo Urbani avrebbe potuto essere il più grande jazzista italiano. Disse una volta: «Tutta la mia esistenza, comprese le ragazze, è collegata alla musica». E poi: «La droga ha distrutto un po’ la mia vita. Combino parecchi guai, ma ho dato un sacco d’ amore a tutti i musicisti». Come il suo divino Charlie Parker, come il suo maestro John Coltrane, come il suo amico Chet Baker, il sax alto Massimo Urbani – spettinato, massiccio, sudato, tecnica strepitosa, cuore sentimentale, cresciuto in maniche corte e giubbotto dentro alla polvere di periferia romana – se n’ è andato di corsa, a 36 anni, il tempo di un assolo struggente, un po’ di vita in levare, un amore, un figlio che non avrebbe mai conosciuto, una manciata di dischi memorabili.

Se l’ è portato via (nella notte tra il 23 e il 24 giugno 1993) un’ iniezione di eroina tagliata male, nel cesso di casa, alla fine di una giornata alcolica e veloce. Sulla sua avventura, sulla sua vita interrotta, una delle cose più belle l’ ha detta Paolo Fresu, trombettista di perfezione zen: «Massimo è rimasto un tesoro nascosto. Era un musicista istintivo, di pancia. E tutta la sua vita era così: intera, immediata, senza progetto». La sua musica gli è sopravvissuta. Dice il pianista Luigi Bonafede: «Come John Coltrane, Massimo aveva un suono materno, universale… Il più bel suono di contralto esistente». In questi dieci anni, la nostalgia per il suo addio è cresciuta come una malattia. La Palma, tempio romano del jazz, gli ha dedicato un concerto e così pure il Conservatorio di Santa Cecilia.

 In suo nome è nata una associazione di musicisti, portavoce il sassofonista Mauro Verrone, che fu il suo migliore allievo e amico: «Lui per me era il sole». La Red Record sta ristampando i suoi dischi ormai introvabili. E Stampa Alternativa ha rimandato in libreria il testo di Carola De Scipio L’ avanguardia è nei sentimenti: vita, morte e musica di Massimo Urbani raccontate da musicisti e amici.

Massimo poteva suonare una notte intera e poteva dimenticare di mettersi le calze in pieno inverno. Poteva dormire sulle panchine del Central Park e riempirsi le tasche di immaginette sacre che gli regalava la nonna. Massimo aveva orrore dei buchi e per l’ iniezione chiedeva sempre a qualcuno. Massimo viaggiava ovunque per suonare, ma pensava che piazza della Guadalupa, quartiere Monte Mario, fosse il posto più bello del mondo. Massimo guadagnava e non aveva mai una lira in tasca. Massimo poteva scendere in un club, innamorarsi, pagare da bere a tutti, iniziare l’ assolo di Night in Tunisia direttamente dal bancone del bar, stregare il pubblico, ubriacarsi e finire sul palco a dormire. Massimo poteva suonare con Jackie McLean a Parigi e due sere dopo, a Roma, presentarsi al bar degli spacciatori, estrarre il sax e dire: «Se vi faccio un blues, quanta roba mi date?».

 Massimo era un uomo buono, anche disarmante e amava il blues che è drammatico quanto la vita. A differenza di molti jazzisti, Massimo Urbani veniva da una famiglia proletaria. Era nato ai bordi del quartiere Monte Mario, anno 1957, padre infermiere, madre morta giovane. Scuola interrotta a 12 anni. Autodidatta: dita e fiato allenati per dieci ore al giorno su un clarino comprato usato. Racconta il fratello Maurizio: «Da piccolo impazziva per la Roma, la bossanova, il jazz e Jimi Hendrix». A 14 anni è già un fenomeno. Racconta il pianista Puccio Sboto: «Era prima di un concerto. Stavo seduto al pianoforte a provare. Era un pezzo di Gillespie, Woody’ in You. A un certo punto, dietro di me, ho sentito Charlie Parker in persona che improvvisava. Mi volto e vedo un ragazzino cicciottello accovacciato sulla pedana che suonava questo contralto come un demonio. Gli chiedo: e tu chi sei? Mi dice: sono Massimo Urbani. Chi ti ha insegnato a suonare bebop? E lui: non sto suonando bebop, sto suonando Charlie Parker».

Nel 1971 lo ascolta Giorgio Gaslini, uno dei grandi del jazz italiano, e lo prende come uditore nei suoi corsi al Conservatorio di Santa Cecilia: «Massimo possedeva un sax scassato e non aveva il soprano che gli ho comprato io. Non leggeva bene la musica, ma imparò: aveva una musicalità spaventosa. Un giornale scrisse: “Il più grande sassofonista europeo ha sedici anni”». Gaslini lo inserisce nel suo gruppo. Urbani debutta nei club, compreso il Blue Note, incontra Max Roach, Keith Jarrett, Red Rodney. Impara una decina di parole inglesi che gli contaminano il romanesco: «Aho, man, m’ ha messo er feeling. Vienime dietro…». Suona al Capolinea di Milano, al Music Inn di Roma. Lascia Gaslini. Entra negli Area di Demetrio Stratos. Conosce Enrico Rava, trombettista, che gli fa un contratto per la tournée del suo quartetto, destinazione New York, anno 1975.

Racconta Mauro Verrone: «Perse l’ aereo per New York. Arrivò il giorno dopo da solo. In volo aveva paura e si ubriacò. Fece lo scemo con le hostess. Rava lo ripescò nel commissariato del J. F. Kennedy». Racconta Fresu: «Finimmo nella stessa stanza d’ albergo. Lui di notte russava e io mettevo i tappi per dormire. Una sera, completamente nudo, andò in corridoio per prendersi una Coca-Cola dalla macchinetta. Rimase chiuso fuori, cominciò a battere la porta. Vennero quelli della sicurezza, lo prelevarono nudo e lui continuava a ripetere: “Ehi, man, io Alto Sax, Alto Sax…”. Quando rientrò in camera non faceva altro che ridere».

Con Rava e dopo Rava vennero i grandi festival come Umbria Jazz e Montreux. Vennero le tournée in Europa. Gli anni Ottanta furono una scala di successi, precipizi, risalite, esecuzioni memorabili. Suonò con tutti i grandi del nuovo jazz italiano: il pianista Enrico Pieranunzi, il bassista Furio Di Castri, il batterista Roberto Gatto, il flautista Nicola Stilo. Racconta Mauro Verrone: «La cosa più bella accadde al Teatro Olimpico, omaggio a Charlie Parker. Primo set di americani, con Sonny Rollins, Franky Abrahm, Dizzie Gillespie. Poi toccò a Rava e Fresu. Poi a Massimo che suonò 8 battute di Round Midnight… E si fermò il teatro, si fermò il tempo».

     Nella vita vera il tempo lo consumò, come accadde a un’ altra meteora del jazz italiano, il solitario Luca Flores, pianista, morto suicida (anno 1994), che Walter Veltroni ha raccontato in un libro di intensità e anima, pubblicato recentemente da Rizzoli. Urbani e Flores suonarono insieme parecchie volte. E insieme incisero il disco (forse) più bello di Massimo: Easy to Love (Red Record, 1987). Poi viene il tramonto: alcol e eroina di strada tutti i giorni. Concerti cancellati, appuntamenti saltati. Dice Verrone: «Spariva, si presentava nei club strafatto. Poi chiedeva scusa, piangeva. Ma nessuno si fidava più di lui». Era un adolescente rimasto senza madre, dicono. Un genio troppo fragile. Un debole con troppa sensibilità e tormenti e timidezza.

 Incontrò Valentina. Si innamorò. Lei rimase incinta. Lui diceva in giro: «Adesso che divento padre, mi ripulisco». Ci provò un paio di volte. Svenne ai bordi della vasca da bagno. In quella casa, dove anche Chet Baker aveva dormito e suonato, bivaccavano decine di persone, ma quella notte non c’ era nessuno. Lo trovò il fratello Maurizio che pensava fosse ubriaco e per svegliarlo gli tirò una secchiata d’ acqua. Poi capì. Erano senza telefono, perché nessuno aveva pagato la bolletta: «Presi la Vespa per andare alla cabina. Venne l’ ambulanza un’ ora dopo». Massimo respirava ancora. Poi smise. Suo figlio, Massimo junior, nacque tre mesi dopo.   

Corrias Pino

Pagina 33
(26 agosto 2003) – Corriere della Sera

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