CONSIDERAZIONI DI UN IMPOLITICO – LA SPOON RIVER DEL DISCO

Il jazz o il progressive non vendono, ciò che si vende è la musica di artisti famosi che hanno grossa promozione sui social media, e sono ben presenti su piattaforme come Spotify , Songlick e Bandsintown.”

Così esordisce il patron della Moon in June, cui l’amico Andbar ha dedicato un meritorio articolo . Questa ed altre affermazioni che seguono smuovono qualche riflessione.

Innanzitutto occorre un esercizio di realismo: non siamo più negli anni ’60 e ’70, quando muovendo da un retroterra di relativo benessere e soprattutto di fiducia nel futuro il pubblico giovane (ed anche meno giovane) era disposto a scommettere sul nuovo e sul cambiamento, ed il primo messaggero di questa apertura al futuro era proprio la musica. Tempo fa mi venne da dire che la musica aveva creato una sorta di nuova Internazionale che sincronizzava movimenti nati alle latitudini e nei contesti più diversi non tanto sul piano razionale, quanto su quello delle emozioni.

Non sono più quei tempi. Oggi la domanda di musica, anche quella più consapevole e smaliziata, è in gran parte spinta da altre motivazioni ed esigenze, non meno vitali e rispettabili. Del resto alla musica non si può chiedere di surrogare quello che sia nella Società, che nella Cultura manca, ahimè.

Ne consegue che chi si dedica alla produzione e promozione di musiche di nicchia ed innovative deve scalare su ordini di grandezza che non possono raffrontarsi con prodotti concepiti in vitro nei laboratori del marketing musicale per un consumo di massa. Bisogna esser consapevoli che ci si rivolge ad un pubblico ben delimitato, non facile da individuare e difficilissimo da espandere. Un pubblico che uan volta fidelizzato può però ripagare nel lungo periodo.

Va poi considerato che il disco segue sempre l’esperienza della musica dal vivo, di cui quella registrata è una sorta di evocazione da ricreare nell’ambito domestico e privato. E’ sul palco che si crea un rapporto diretto tra musicisti e pubblico, un rapporto scambievole nell’ambito del quale è possibile far filtrare proposte innovative, calibrandole in tempo reale sulla sensibilità e ricettività della platea. E’ cruciale quindi salvaguardare un circuito di musica dal vivo che sia adeguatamente orientato e selettivo, e che crei e mantenga con il proprio pubblico un rapporto di fiducia che consenta anche di accogliere talvolta ‘proposte a scatola chiusa’. Insomma, un circuito che generi una sorta di sperimentato e riconoscibile ‘marchio di qualità’.

“C’è anche la sbagliata convinzione che le etichette, i managers, gli agenti possano fare miracoli e gli artisti spesso nutrono grandi aspettative in tal senso.”

Certo, questo è fuor di dubbio, ma va anche ricordato che la loro è una indispensabiule funzione di mediazione tra musicisti e pubblico, di cui i ‘professionals’ hanno, anzi devono avere il polso. Funzione non surrogabile, dato che questo non è mestiere per i musicisti, che devono concentrarsi sulla qualità della propria creazione. “Il produttore è il primo ascoltatore”: lo diceva Keith Jarrett, uno che certo non ha mai peccato di modestia. E questo è un ruolo che va rivalutato ed a cui va riservato un attento ascolto. Senza gli Alfred Lion, gli Orrin Keepnews, i Bob Thiele, i Michael Cuscuna (giusto per citarne solo alcuni), ben difficilmente le proposte innovative dei Powell, dei Monk, dei Mingus, dei Coltrane, dei Coleman o dei Dolphy avrebbero trovato la loro strada verso gli ascoltatori.

La Scuola Popolare di Musica del Testaccio: quanta della musica che oggi si suona in fior di teatri è partita da qui….

“ …ma il fattore principale per il successo (…), per gli artisti e chi ha in mano la gestione delle loro attività, è di promuovere, promuovere, promuovere fino allo sfinimento, con i musicisti che sono in prima linea in questo processo

Ecco, “promuovere, promuovere, promuovere”: un imperativo anche per i musicisti, e da parte loro lo si fa essenzialmente sul palco, suonando più spesso che si può, anche in sedi un poco umili e poco prestigliose, cercando ed entrando in sintonia anche con un pubblico magari un poco naif. E soprattutto tenendo presente che non si sale sul palco come se si fosse alla prima alba del mondo: non è realistico attendersi risposte dalla platea quando gli si scarica addosso d’improvviso mesi od addirittura anni di lavoro solitario in una stanza chiusa. Il jazz è una pratica che si consuma in pubblico, con continuità, solo così si creano gli indispensabili codici di comunicazione condivisi con gli ascoltatori. Ed è una pratica che richiede consapevolezza delle radici: nessuno nasce e crea dal nulla, si prosegue sempre una strada iniziata da altri.

Dello stesso autore, ‘Mezzo secolo strappato all’Agricoltura’, si parla sempre di Testaccio :-). Tanta ironia, il culto dell’immagine lo si lascia agli altri….

Diversamente c’è il rischio dell’autoreferenzialità, dell’isterilimento già sperimentato dalla musica accademica di matrice europea. E sotto questo profilo la crescente ‘accademizzazione’ della formazione delle nuove leve jazzistiche è un problema non da poco: paradossalmente erano avvantaggiati i ‘jazzisti selvaggi’ degli anni ’70 ed ’80 che muovevano quasi i primi passi davanti ad un pubblico in presenza, spesso anche in una cantina, come no, ma guardando negli occhi i destinatari della loro musica.

E veniamo anche alla parte del pubblico, perché c’è anche quella. Prima di tutto, bisogna sforzarsi di perseguire forme di fruizione consapevole. L’utopia del web è tramontata, ora sappiamo che si è facilmente ed irreversibilmente trasformato nel regno di monopoli e  oligopoli: ma ormai bisogna fare i conti con la realtà di piattaforme web che ormai sono ineludibili vetrine di visibilità per ogni tipo di musica, ivi comprese quelle indipendenti da logiche puramente commerciali. Da ascoltatori potremmo cercare di sforzarci di non subire passivamente le playlists generate da intelligenze artificiali che spesso partoriscono risultati patetici e comunque mirano ad imporci nuovi consumi; dovremmo ricercare attivamente la musica di cui abbiamo sentito parlare in ambiti indipendenti, aumentando gli ascolti dei musicisti che meritano più riconoscimento, possibilmente condividendoli con amici di gusti simili. La visibilità su queste piattaforme è importante per le carriere dei musicisti, anche se la remunerazione che viene dallo streaming è risibile ed oscuramente calcolata.  Bisogna poi esser consapevoli che la sola musica che ci appartiene è quella che abbiamo sui nostri scaffali o stabilmente acquistata per i nostri dispositivi: è anche l’unica che dà da vivere ai musicisti. Bisogna riflettere anche su come mode futili come quella del vinile abbiano finito di devastare un mercato discografico già disastrato da streaming e pirateria, e questo vale a maggior ragione e per le musiche indipendenti e chi le promuove.

E poi anche noi non dobbiamo perdere occasione di andare ad ascoltare musica dal vivo, prescindendo anche dal glamour della sede e dei nomi. Dobbiamo anche imparare a riconoscere chi ci propone musica di qualità ed a cui affidarci anche quando ci mancano elementi di valutazione su proposte specifiche: del resto un click sullo streaming consente quasi sempre di farsi una qualche idea, è uno dei pochi lati positivi di queste realtà.

Ed infine dobbiamo imparare a prescindere dal ‘personaggio’: personaggi veri si può diventare con la propria opera, mai con i battage mediatici. I ‘personaggi’ di quest’ultimo tipo sono creati da altri per un consumo effimero, e sono prigionieri del bozzolo di apparenze con cui sono stati promossi: da loro non arriveranno mai vere emozioni.

My five cents, come sempre. Milton56

Troppe parole, ora un poco di musica e di immagini. Si parlava di ‘jazzisti selvaggi’, di cantine avventurose? Il pensiero corre subito a Massimo Urbani, ricordato qui in una ‘scheggia’ di documentario che un benemerito amanuense del web ha salvato dall’ignavia di altri. Guardateli questi 12 minuti, si capiscono meglio tanti problemi su cui ho sproloquiato. Una scheggia che viene da un passato lontano, ma che può ancora volare nel nostro futuro

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