IL TEMPO RITROVATO

No, non temete. Qui non è questione di madeleines tuffate nella tazza e che riemergono solo venti pagine dopo, e neppure di Zeppelin che come incubi sinistri vengono a dissipare il sogno della Belle Epoque parigina.

… no, lui non c’entra. Ma una sfogliatina alle pagine finali con gli Zeppelin che incombono sulla Parigi delle fanciulle in fiore non guasterebbe proprio di questi tempi…

Qui parliamo di un nastro che riemerge un po’ rocambolescamente ed inaspettatamente da un passato piuttosto lontano nel tempo, più di mezzo secolo: la sua storia e la sua ricomparsa hanno anche un certo risvolto romanzesco. Ma andiamo con ordine.

Il classico posto in cui si trovano le auto con i morti sparati nell’aspro ‘The French Connection’ di Frankenheimer, da noi ‘Il Braccio Violento della Legge’. Film che vanta una magnifica soundtrack di Don Ellis, tra l’altro

New York, un imprecisato giorno del 1966. Siamo ad Alphabet City, East Village. Un posto dove i taxi si rifiutano di andare e la presenza più rassicurante è quella di un circolo di Hell’s Angels, quelli del mortale pestaggio  al concerto di Altamont dei Rolling Stones nel 1971. Eppure ci sono degli ardimentosi che vi si avventurano per raggiungere lo Slug’s Saloon, e la ragione balza agli occhi guardando questa locandina:

..il tutto in poco più di un mese….

Un giovane musicista 23enne ha invitato al suo concerto il suo amico Orville. Per nostra fortuna, Orville è un valente tecnico del suono (uno dei pochissimi neri del mestiere), e si presenta munito di questo giocattolino:

Per riprodurre e riversare le sue bobinette è stato necessario mobilitare la Ampex per modificare ad hoc uno dei loro registratori da studio. Considerato il  supporto di partenza ed il mezzo secolo di stagionatura nell’armadio, il risultato sonoro finale è veramente sorprendente: complimenti ai tecnici di The Mastering Lab, anche loro degli artisti

A fine concerto Orville consegnerà una copia delle varie piccole bobine all’amico batterista. Dormiranno per quasi 60 anni in un suo armadio.

Il giovane batterista era Jack Dejohnnette, e sul palco con lui c’erano Joe Henderson, McCoy Tyner ed Henry Grimes. Con il senno del poi, un gruppo straordinario, una di quelle comete che nel firmamento jazzistico durano quasi sempre una sola notte.

Dopo le peripezie quasi romanzesche di cui sopra, il nastrino del 1966 è ora diventato questo:

Copertina nel più puro stile Blue Note dei tempi d’oro: luci e colori evocano alla perfezione la musica che contiene

Un doppio Cd con quasi 80 minuti di musica, corredato da un libretto di 48 pagine con saggi di Nate Chinen, Joe Lovano, Nasheet Waits, Christian McBride, Terry Lyne Carrington ed infine anche del giovanotto Jack Dejohnnette (oggi 82enne). Un piccolo libro denso di informazioni e di idee, un piccolo tesoro di letteratura jazzistica.

Anche questo si rivela da subito un disco fatto con amore, pur proveniendo da una grande label come Blue Note: dietro c’è il solito Zev Feldman, tutta l’operazione tradisce la filosofia Resonance.

Ma veniamo alla musica. Il 1966 è un momento di riflusso: la fuga verso l’infinito di Coltrane è alle ultime battute, la forza d’urto della prima ondata del Free sta rapidamente declinando, tra poco si avvertiranno le prime avvisaglie della diaspora che sconvolgerà la relativa linearità dell’evoluzione del jazz. Ed incombe la rivoluzione del rock, che ruberà tanti spazi ed ascoltatori alla musica afroamericana.

Eppure è ancora un momento di gran fermento ed incubazione, soprattutto in quella zona di confine tra l’hard bop più avanzato e la free form: momenti e zona molto trascurati oggi.

Henderson e McCoy hanno raggiunto già lo status di giovani maestri, ma in differente fase della carriera. Henderson sta consolidando il suo status di leader dopo una serie di importanti album a suo nome che già definiscono un suo stile marcatamente riconoscibile. Tyner è appena uscito in punta di piedi dal quartetto di Coltrane: esperienza folgorante (c’è un Trane con McCoy ed un Trane dopo), ma ormai esaurita per ben precise ragioni. Ed il nostro vive un momento professionale non facile, al punto di pensare di ottenere una licenza di taxista per campare la famiglia: incredibile, ma vero, a testimonianza della labilità delle glorie jazzistiche. Per nostra fortuna incontrerà sulla sua strada Alfred Lion di Blue Note, ed avremo un tassista di meno ed un capostipite dal piano jazz contemporaneo in più (sono solo in due, l’altro è Bill Evans).

‘The Real McCoy’, l’album della rinascita tyneriana portato sugli scudi in tutte le discografie jazzistiche. Qui la coppia Henderson-Tyner opera nella quiete concentrata controllata dello studio: un utile termine di raffronto per valutare la eccezionalità della serata allo Slug’s (vedi clip in chiusura del pezzo)

Se Dejohnnette è agli albori di una lunga e multiforme carriera giunta sino ad oggi, Henry Grimes è bassista di grande esperienza, e con un curriculum quantomai variegato (da Benny Goodman a Lennie Tristano, da Gerry Mulligan a Sonny Rollins); ma nei primi anni ’60 si è distinto a fianco di alfieri del Free come Cecil Taylor, Don Cherry ed Albert Ayler. Ed è soprattutto questo a rendere particolare ed inedita la band dello Slug’s….

La serata si presenta subito con un ‘In’n Out’ che fa fermare il cronometro nientemeno che a 26 minuti e 44. E sono 26 minuti travolgenti, senza nemmeno un momento di distensione. Henderson è quello che sorprende di più: al posto del narratore pacato e riflessivo che conosciamo dai suoi famosi album Blue Note, ci troviamo davanti ad un solista inesauribile che inanella 72 chorus di fila, sgranando una dietro l’altra idee sempre nuove e diverse. Dopo pochi minuti il metronomo si schianta sotto l’urto di un tempo velocissimo. Il  tono di Joe ha qualche sfumatura aspramente metallica, ma quello che colpisce di più è il rigore e la solidità della costruzione melodica, che come qualcuno ha giustamente notato sembra ricordare quella del Sonny Rollins dell’epoca.

Ad aumentare la tensione contribuiscono anche densi silenzi di Tyner, che accompagna con accordi staccati e tesi, ma quando il testimone passa a lui parte in vertiginosi voli radenti di lunghissimi sciami di note brevissime ed incisive: anche qui nulla è fuori posto, né ripetitivo, anche qui nessuno scampo per il povero metronomo.

Henderson e Tyner hanno una solida consuetudine reciproca di collaborazioni da sidemen negli studi Blue Note, ma qui vengono trasfigurati dalla pressione costante ed incalzante della ritmica Grimes/Dejohnnette, che porta con  sé l’aria del tempo, quello della ‘musica di fuoco’.  E se basso e batteria braccano senza requie la front line, questa sfodera una grinta ed una determinazione assolutamente impressionanti, che non vanno mai a scapito della nitidezza e solidità della costruzione musicale. Anche chi ha lunga consuetudine ed affezione ai personalissimi stili di Henderson e Tyner non potrà non rimanere stupito di fronte a questa performance al calor bianco, ahimè frutto di una combinazione che non è destinata a ripetersi. Anche perchè poco dopo Grimes sprofonderà nell’oscurità di una vicenda di solitudine ed emarginazione che durerà decenni: solo negli ultimi anni William Parker lo strapperà al tugurio cui dormiva donandogli uno dei suoi contrabbassi e restituendolo ad un’ultima stagione di creatività artistica.

La torrenziale inventiva del gruppo si dipana in altri brani di ampiezza oceanica, come ‘Taking Off’ (non a caso si parlava di voli…), ‘We’ll be together again’ e ‘The Believer’, solo ‘Isotope’ offre qualche momento di relativa requie, ma è anche il pezzo più breve.

Con saggia decisione non sono state tagliate le reazioni dell’intrepida platea dello Slug’s, che molta parte ha nell’esito di questa magica serata che così ci arriva pressocchè intatta anche nella sua atmosfera

…ed eccolo il composito pubblico hip dello Slug’s: per molto meno nell’Alabama del 1966 sarebbero già comparsi i cappucci bianchi del Klan con corda e sapone d’ordinanza. l’Internazionale del Jazz non è poi un mito…

‘Forces of nature’ (titolo azzeccatissimo) è una sorta di messaggio in bottiglia che ci porta la testimonianza di una musica dell’intensità e dell’urgenza che continuava a germogliare sottotraccia anche in un momento di incertezza e di problematica transizione per la musica afroamericana (per tacere delle nubi minacciose che si addensavano sull’intera società). E dalla bottiglia sgorga una musica vitalissima ed incandescente che rende questo album prezioso ed a mio avviso destinato a rimanere nel tempo. Ma non  è solo questione di scoperte storiche: di questa ‘musica dell’urgenza’ oggi si sente un maledetto, vitale bisogno. Milton56

P.S. un’altra bottiglia con un messaggio dei primi anni ’70 si sta avvicinando ai nostri lidi. Stay tuned… 😉

Difficile scegliere un brano sufficientemente agile e che dia comunque un’idea dell’intensità vulcanica di questo album: questo forse è l’unica scelta possibile. ‘The Believer’, ‘Il credente’, naturalmente è firmato da McCoy, uno per il quale la spiritualità era una silenziosa scelta di vita, e non uno strumento di autopromozione. 10 minuti che vi faranno amare questo piccolo tesoro musicale

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