Freddie Hubbard, Ron Carter, George Benson, Billy Cobham, Airto, Hubert Laws, Keith Jarrett. Se pensate che questa sia una formazione immaginaria, frutto di un desiderio irrealizzabile di un appassionato di jazz, state sbagliando. Sono proprio loro i musicisti che, agli inizi di ottobre del 1972 registrarono “Sky dive“, ventesimo album del trombettista Freddie Hubbard, presentato dalle note di copertina come la quintessenza della formula CTI, casa discografica fondata agli inizi del decennio dal produttore Creed Taylor, personaggio chiave di una bella porzione della storia del jazz statunitense, dalla metà dagli anni ’50 fino agli ottanta. Ma andiamo con ordine, partendo dalle caratteristiche del disco di Hubbard, che presenta non pochi motivi di interesse, a partire da un quasi inedito Jarrett nel ruolo di session man, per delineare missione e stile della Creed Taylor Incorporated, etichetta che, nell’arco di un decennio, attraversò il firmamento del jazz e della fusion, lasciando una scia di oltre cento album.
Se la scelta estetica puntava ad una forma ibrida fra il jazz post bop, il funky ed il soul con raggio di azione variabile fra questi estremi a seconda dei titolari delle produzioni, anche le caratteristiche “produttive” di un disco CTI erano infatti chiaramente identificabili : scelta dei musicisti migliori sulla scena, spesso coinvolti vicendevolmente nei progetti di ciascuno, registrazione effettuata con i più avanzati mezzi tecnici a disposizione, linea grafica e packaging distintitvi, scelti dallo stesso Taylor, arrangiamenti dell’impeccabile Don Sebesky, e grande proiezione sul mercato. Si, perchè le grandi vendite, insieme all’ estrema cura per gli aspetti musicali ed estetici, erano uno degli obiettivi di Taylor al momento del lancio della propria etichetta: basti pensare che Hubbard che veniva dalla Blue Note dove vendeva mediamente 15.000 copie dei suoi album, con “Sky Dive” e gli altri CTI incisi (“Red Clay”, “Straight Life”, “First Light“) arrivò a decuplicare tali cifre, prima di rompere la relazione con Taylor per dissidi personali. Un aspetto che Taylor aveva da sempre avuto ben presente anche nelle precedenti tappe della propria autorevole carriera, dalla fondazione della Impulse, per la quale aveva scritturato Coltrane e prodotto rigorosi capolavori come “Out Of The Cool” ed “Into The Hot” di Gil Evans, “Blues And The Abstract Truth” di Oliver Nelson, e “Genius + Soul = Jazz” di Ray Charles, alla redditizia promozione della musica brasiliana ibridata con il jazz avviata dopo il passaggio alla Verve con i pluri milionari “ Jazz Samba” di Stan Getz e Charlie Byrd del 1962 e “Getz- Gilberto” del 1964, fino alle intuizioni di una svolta più popolare per la musica di Wes Montgomery ( “Going out of my head”,”Tequila” ed i seguenti dischi della fine anni ’60 abbastanza lontani ed annacquati rispetto a quelli del periodo Riverside).
“Sky dive” inizia con “Pova“, una danza collettiva condotta dall’imperioso riff di Ron Carter, quasi un archetipo della ritmica funk della musica fusion, su cui si innestano il piano elettrico di Jarrett e la chitarra di Benson fino all’ingresso della tromba e del flauto nel tema in contrappunto; poi si prosegue con gli assoli in sequenza incorniciati dalla esuberante sezione fiati condotta da Sebesky. “In a mist” è il brano più curioso ed anomalo in scaletta: una composizione degli anni ’20 di Bix Beiderbecke che diventa occasione per un esperimento di swing sinfonico, con il dialogo, inizialmente dimesso e quindi dinamico, fra Hubbard e gli altri fiati, che conduce ad un solo molto circoscritto di Jarrett e quindi al finale onirico. Si torna al periodo contemporaneo con l’intimità della ballad “Naturally” di Nat Adderley, dalla quale emergono la profonda sensibilità di interprete di Hubbard, e le doti soliste del flauto di Laws e della chitarra di Benson, e con la successiva ripresa del tema de “Il Padrino” di Nino Rota, uno dei film più importanti di Francis Ford Coppola, oggetto all’epoca di straordinaria attenzione collettiva. Qui si conferma un altra caratteristiche della Cti, la capacità di cavalcare il fenomeno del momento, tessendo trame parallele fra il campo musicale e quello del cinema, come accadrà un anno dopo con la pubblicazione della rilettura funk di “Also spracht Zarathustra” di Richard Strauss ad opera del pianista brasiliano Eumir Deodato, colonna sonora di “2001 Odissea nello spazio ” di Kubrick, che portò l’album “Prelude” ad essere uno dei titoli di maggior successo del catalogo CTI . Il disco si chiude con la rilassata title track a firma Hubbard, un altro brano in pieno stile CTI, ricco di arrangiamenti raffinati ed assoli perfettamente calibrati (qui in evidenza quello bluesy di Benson, che continuerà a suonare il brano per anni con le sue formazioni) adagiati su un ritmo avvolgente.
La relazione fra Hubbard e Taylor, come detto, non ebbe vita lunga e la rottura, dovuta probabilmente al carattere non disposto alla mediazione dei due, segnò anche l’inizio della decadenza per la carriera di entrambi, quella artistica del trombettista e quella imprenditoriale del produttore che, dopo un accordo per la distribuzione con la Motown, fu costretto nel 1978 a dichiarare il fallimento della propria creatura e cedere i diritti alla Columba records. Taylor provò fino alla fine a far risorgere la CTI, alla fine degli anni ’80 ed anche nel nuovo millennio, con la creazione di una CTI All Star con Hubert Laws, Airto Moreira,Randy Brecker John McLaughlin,George Duke , e Jamie Cullum come ospite, che si esibì nel 2009 al festival di Montreaux in un concerto immortalato su cd e dvd. Creed Taylor ci ha lasciati nel 2022 a 93 anni, ed oggi il catalogo CTI, di proprietà della Sony con distribuzione Epic, è rimasto in gran parte in stampa e si pone, insieme agli innumerevoli capolavori da lui prodotti ed alle produzioni più commerciali partorite dalle etichette satelliti della CTI, come testamento di un personaggio fondamentale per la musica jazz.
A Creed Taylor è stato dedicato un intero sito, https://www.ctproduced.com/ , ricco di informazioni sulla vita e la carriera del famoso produttore, dove è possibile anche assistere alla visione integrale del documentario “The music came first“, che ricostruisce tramite testimonianze dirette ed interventi critici l’intera eopoea dell’uomo che trascorreva circa il 90% del proprio tempo in studio di registrazione, spesso quello di Englewood Cliffs nel New Jersey, casa del tecnico del suono Rudy Van Gelden.
Dall’enorme mole di materiale informativo disponibile, abbiamo attinto alcuni aneddoti sul produttore da una delle rare interviste concessa nel 1979 al giornalista Mike Hennessey per la rivista britannica Jazz Journal International, il cui testo integrale si può consultare sul sito.
La svolta di Wes Montgomery e le accuse di “svendita” al mercato.
Tuttò iniziò nel 1965, quando Creed Taylor diede a Wes Montgomery una copia del brano “Going Out Of My Head” del gruppo rhythm and blues Little Anthony and the Imperial, s e gli suggerì di includere quel pezzo nel suo prossimo album. Si dice che Montgomery abbia guardato il produttore con un’espressione che lasciava supporre l’identificazione con il titolo, ma poi si persuase a registrare la canzone.
Da lì in poi la carriera del chitarrista risultò trasformata. Il disco omonimo vendette milioni di copie e vinse il Grammy del 1966 come migliore perfomance jazz strumentale, consentendo a Montgomery di vivere in agiatezza gli ultimi anni della sua breve vita. Fu allora che iniziarono le accuse di avere venduto l’anima e la musica al mercato da parte di chi aveva conosciuto ed apprezzato Montgomery fra il ’59 ed il ’64 nei suoi lavori per la Riverside, una critica che accompagnò il percorso di Taylor fino ai passi successivi, coincidenti con l’avvento della musica definita fusion o crossover che caratterizzò buona parte del catalogo CTI. Lui non partecipò mai al dibattito, limitandosi a laconici commenti nelle rare interviste che toccavano il tema.
“Penso che le incisioni Riverside di Wes avessero una produzione troppo blanda, erano una sorta di jam session con una sezione ritmica reclutata di volta in volta con interminabili assoli, una formula che non avrebbe garantito alcuna esposizione nelle radio, cosa fondamentale per le vendite negli USA. Così decisi che occorreva fornire un diverso contetso alla musica di Wes, non che fossi innamorato dall’idea di sommergere i suoi dischi con gli archi, ma se quello era il modo per falo arrivare ad un pubblico più vasto, così doveva essere. Lavorare con lui e la complicità di Oliver Nelson fu davvero semplice, Wes non sapeva leggere la musica, ma era un musicista naturale.“
C’è crossover e crossover
Anche sulle discussioni relative alla purezza artistica di moltre sue produzioni, le idee di Creed erano chiare. “Oggi il pubblico del jazz ha gusti molto più sofisticati ed eclettici, ma lo scopo originale del crossover era di inserire nelle registrazioni jazz elementi che potessero portare ad un ampliamento della platea. Il problema è che oggi molti operatori non professionali hanno invaso quest’area, in alcuni casi forzando i musicisti jazz a scelte innaturali Se i Weather Report o Chick Corea sono considerati crossover, nessun problema, loro fanno una musica che letteralmente unisce diverse frontiere. Ma d’altra parte c’è tanta musica in questo settore, come quella prodotta in casa CBS, che suona innaturale e priva di gusto. ” “Sono certo che avere reso la musica più accessibile abbia giovato il processo di espansione verso il jazz, ma non posso dire di non avere fatto errori nella mia carriera. Dopo il successo di Ester Philips (con “What a difference a day make”) mi sono rivolto a produrre musica per le discoteche perchè sentivo come mio dovere verso l’etichetta quello di assicurare un buon livello di vendite e le discoteche erano la nuova frontiera delal promozione in musica. Qui il proprietario di etichetta può scontrarsi con il produttore e, ricoprendo entrambi i ruoli, non era semplice evitare le trappole.”
La stampa e Taylor
“Molti critici non colgono il punto, come capita in campo cinematografico. Chris Albertson (scrittore e discografico newyorkese) è un recensore molto intelligente e bene informato, ma ha un occhio prevenuto verso i produttori e so già cosa scriverà prima di averlo letto, Nat Hentoff (critico del Vilage voice e di svaiate riviste musicali) tende a sdegnare qualsiasi cosa non sia Charlie Mingus o jazz in purezza. Non ci incrociamo volentieri “. “In realtà il jazz è sempre stato il mio primario campo di interesse e posso dire con felicità che vedo un ciclo in movimento, alimentato anche dal flusso di produzione crossover, verso una situazione simile a quella dei primi anni settanta, con molti musicisti come Stan Getz, JIm Hall o Dexter Gordon investiti da una sorta di risveglio artistico (siamo nel 1979 ndr ) . Quando iniziai nel music business 5000 copie erano una vendita straordinaria per un album jazz. Ora venderne 50.000 è abbastanza comune, e se in passato non c’era la remota possibilità di un album jazz che vendesse milioni, oggi abbiamo George Benson con un doppio platino”.
Il jazz preferito da Creed Taylor ed il suo metodo
Taylor nell’intervista confessa che fra i suoi gruppi preferiti figurava il trio Norvo-Farlow-Mingus del 1950-51, e fra i dischi da isola deserta, That’s How I Feel About Jazz”, di Quincy Jones “Concierto” di Jim Hall , e “Genius + Soul = Jazz”, di Ray Charles insieme a qualsiasi album di Getz, Wes Montgomery, Wynton Kelly ed il primo Jobim, ai quali aggiungeva il disco registrato nel 1977 con Nina Simone a Bruxelles nel 1977, (“Baltimore” ndr) “un disco non facile da realizzare, ma come artista Nina Simone non sbagliava un colpo.”
E fornisce questo bella descrizione del suo metodo : “Approccio l’organizzazione di un disco dalla composizione della sezione ritmica, scegIiendo quali musicisti abbinare in base alle caratteristiche personali, e proseguendo con i fiatisti. Cerco di mettere insieme i pezzi come un giocatore di scacchii e sono attivamente coinvolto negli arrangiamenti, l’ordine degli assoli, la loro durata, la registazione ed il missaggio.
Lontano dal voler compromettere l’integrità degli artisti jazz, Taylor appare, al termine di questa sorta di auto analisi condotta davanti al cronista, come un produttore immaginativo e dotato che ha cercato solo di portare un pò di soldi dalle tasche degli acquirenti di dischi a quelle di alcuni talentuosi musicisti jazz.
