Il mondo del jazz è pieno di storie da raccontare, e basta un inaspettato regalo di Natale per accendere la curiosità e mettere il cronista musicale alla ricerca di un filo che trova il suo capo nel lontano 1976. E’ l’anno di pubblicazione di “Scenery” del pianista Ryo Fukui, musicista autodidatta nato nel 1948 in provincia della città giapponese di Sapporo, la cui biografia mi ha colpito, in particolare, per un inizio di carriera caratterizzato da sfiducia nei propri mezzi e (presunta) scarsa capacità di progredire nella pratica pianistica. Nonostante ciò il suo primo album, all’epoca totalmente ignorato e fino a pochi anni fa sconosciuto alle nostre latitudini, è considerato uno dei caposaldi nel rinnovato interesse nei confronti del jazz suonato da musicisti giapponesi registrato nel nuovo millennio, tanto essere stato di recente ristampato, con l’intera discografia di Fukui, dall’etichetta elvetica We release Jazz e da essere diventato, in Giappone, un riferimento per i frequentatori dei jazz kissa‘s, locali nei quali l’ascolto di vecchi vinili viene ritualizzato alla stregua di una degustazione di un prezioso distillato. Andiamo con ordine, allora, per cercare di dipanare quel filo e raccontare questa piccola anomalia discografica.
Fukui, con il trio di “Scenery“, composto dal bassista Satoshi Denpo ed il fratello Yoshinori Fukui alla batteria, continuò ad esibirsi, negli anni seguenti all’uscita del primo disco, in vari jazz club giapponesi fino ad incidere un secondo album, “Mellow dream” nel 1977. Quindi il salto verso l’europa e gli Stati Uniti, dove dopo un lungo periodo poco tracciato nelle biografie, agli inizi dei ’90 avviene l’ incontro con Barry Harris, pianista, bandleader e didatta di Detroit che lo accoglie sotto la propria ala, supportandolo nell’approfondimento dello stile bebop. Il terzo album arriva del 1994 ed è un solo, “My favourite tune“, con diverse cover di standards jazz, prima di tornare al trio del 1998 di “In New York “con il batterista Leroy Williams ed il bassista Lislae Arthur Atkinson. Nel 1995 Fukui apriì a Sapporo lo Slowboat jazz club che presto divenne meta di musicisti locali ed internazionali e nel suo locale incise l’ultimo LP “A Letter From Slowboat“, nel 2015. Dopo la sua morte nel 2016, il club venne diretto dalla moglie Yasuko Fukui, mentre Barry Harris compose in suo onore ‘Fukai Aijo“, una canzone che continuò ad eseguire in tutti i suoi concerti.
Note biografiche sin troppo succinte, quelle che si possono reperire in rete, con salti temporali notevoli che non spiegano il mistero di “Scenery“, apparentemente un debutto di poco più che un principiante, in realtà all’ascolto , opera di un musicista dallo stile già personale e sufficientemente definito fra influenze bop, pieghe modali ed una vena lirica che può richiamare nomi autorevoli della storia del pianoforte jazz.
Ascoltate dopo l’inizio baldanzosamente swingante di “It could happen to you” , con quale raffinatezza viene approcciata la ballad “I want to talk about you” di Billy Eckstine, il drive del trio all’attacco di “Early summer“, sapientemente condotta nelle sue svolte armoniche dal pianoforte fino all’accelerazione della parte finale, con qualche sbavatura nel solo di batteria . O l’anima intimamente blues di una “Willow weep for me” ricca di variazioni e cambi di clima che precede “Autumn leaves” , altro esempio dell’approccio inventivo di Fukui, che elabora idee sul celebre tema, talora con qualche eccesso di enfasi, lasciando poi spazio anche ad un solo del contrabbasso.
L’ultimo brano dopo i cinque standards è una composizione originale, quella che dà il titolo al disco : qui Fukui estrae la propria vena più immaginifica, con un tema che potrebbe accompagnare i titoli di coda di un film romantico, tanto semplice quanto efficace nel suo scorrere malinconico e bluesy.
Forse non un capolavoro , “Scenery“, ma il lavoro di un musicista che sicuramente all’epoca sottovalutava i propri mezzi: vale comunque la ricerca e la (ri)scoperta.
