L’importanza di Robert Wyatt

Mary Halvorson racconta a Jazzwise della profonda importanza di Rock Bottom nella sua esperienza di (relativamente) giovane ascoltatrice prima e di musicista in proprio poi, al punto da spingerla in anni successivi a intraprendere un rapporto diretto con Robert Wyatt, seppure a distanza, sfociato infine nella collaborazione di Artlessly Falling (Firehouse 12 records, 2020).

Quando sei adolescente e ascolti qualcosa per la prima volta, ha un impatto incredibile; e io ho sicuramente avuto esperienze del genere a quell’età. Ma è molto più raro che si abbia un impatto del genere più avanti nella vita; e questo è uno di quei dischi per me. Dico “più avanti nella vita”: probabilmente l’ho sentito a 27 anni, quindi ero ancora giovane; ma a quel punto, avevo ascoltato tantissima musica. È stato bello immergersi in qualcosa senza preconcetti; e non capita così spesso, perché di solito si sa qualcosa di qualsiasi cosa si tratti. È stato come scoprire qualcosa che non potevo credere di essermi perso per tutta la vita! Vivere quell’esperienza un po’ più grande è stato fantastico. Non so se l’avessi sentito da giovane, se ne sarei riuscito a capire il senso. Forse era il momento perfetto per ascoltarlo.

https://www.jazzwise.com/mary-halvorson

Fonte: https://hibou-anemone-bear.blogspot.com/

Ecco il contributo dello scrittore Jonathan Coe che si è occupato della prefazione del libro dedicato a Robert Wyatt © Giunti Editore:

Questa eccellente biografia vi racconterà tutto quello che avete bisogno di sapere sulla storia di Robert Wyatt. Ergo, poiché mi è stata chiesta qualche parola a mo’ di prefazione, credo che parlerò da una prospettiva del tutto personale. Qualche minuto fa questa pagina era bianca. La fissavo senza sapere cosa scrivere. Poi ho chiuso gli occhi e ho aspettato di vedere la prima cosa che mi veniva in mente pensando a Robert Wyatt. Era un’immagine della mia scrivania. Una piccola scrivania di pino che acquistai nel 1991 e collocai nell’angolo della nostra camera da letto, nell’appartamentino che prendemmo in affitto per qualche mese in una traversa di King’s Road, a Chelsea. Vi era poggiato un nuovissimo computer portatile Toshiba, di cui ero fiero e felice. Mi vantavo con gli amici della capienza del suo disco rigido: 20 megabyte! Quanto bastava per contenere tutto il romanzo che intendevo scrivervi.

Veniva da Rock Bottom, l’album di Robert del 1974, quando gli eccezionali vocalizzi senza parole nel finale di Sea Song avevano fatto da consolante colonna sonora alle tante delusioni sentimentali dell’adolescenza. Veniva da Nothing Can Stop Us: nelle sue sublimi rivisitazioni di Strange Fruit e At Last I Am Free (la sua versione, meno levigata ma molto più audace dell’originale degli Chic, forza la melodia fino a renderla quasi insostenibilmente fragile e vulnerabile). E veniva certamente da Old Rottenhat, l’album che per me aveva fotografato meglio di qualunque altro l’emergente crudeltà del thatcherismo, oltre a presagire l’avvento del New Labour («Se dimentichiamo le nostre radici e dove siamo / Il movimento si disintegrerà come castelli di sabbia») dieci anni prima che Tony Blair stracciasse la Clause 4.

Adesso trovo significativo che Robert fosse riuscito a incidere a metà anni Ottanta uno dei suoi album più impegnati e appassionati. Com’è noto la sua carriera era incominciata come batterista e cantante dei Soft Machine, uno dei gruppi chiave nei primi anni della cosiddetta scena di Canterbury. Un tratto caratterizzante dei complessi canterburyani – oltre al virtuosismo strumentale, al non prendersi sul serio e alle inclinazioni dada – fu la costante incapacità di raggiungere il grosso pubblico, di travalicare le pagine delle riviste specializzate per arrivare ai mezzi di comunicazione di massa e alla notorietà nazionale. Troppo raffinati? Troppo oscurantisti? Chi lo sa.

Tubular Bells di Mike Oldfield, disco canterburyano negli intenti e negli scopi (o negli stenti e nelle scope, come avrebbe potuto facilmente intitolarsi un brano degli Hatfield and the North), è una delle due manifeste eccezioni a questa regola. L’altra è l’opera di Robert Wyatt. La maggior parte degli artisti emersi da quella scena faticò a stare a galla nei mari in tempesta della musica britannica dei tardi anni Settanta. I loro vecchi dischi scomparvero dai negozi senza che ne arrivassero di nuovi. Ma Robert pareva prosperare. Con Shipbuilding, scritta per lui da Elvis Costello e Clive Langer, divenne più famoso che mai.

Una canzone meravigliosa con un testo sottotitolato in italiano che rivela la profondità e la grandezza di Wyatt

Un bel po’ di longevità artistica e popolarità deriva dalla fortuna ma non credo che qui la fortuna entrasse in alcun modo, né che abbia a che fare con il fatto che oggi, più di quarant’anni dopo che i Soft Machine lo licenziarono senza tante cerimonie, le sue canzoni siano più rivisitate e amate che mai. No, di sicuro deve dipendere dall’ampiezza delle sue vedute. Dopo i suoi album Virgin degli anni Settanta qualcosa cambiò: le influenze divennero più vaste ed eclettiche, attingendo da musiche da tutto il mondo e mantenendo unica la sua voce, immediatamente riconoscibile come i suoi stilemi strumentali. Robert sviluppò una nuova prospettiva, più esplicitamente politica, senza perdere nulla dell’umorismo e dell’autoironia che l’hanno sempre contraddistinto.

Improvvisamente la sua musica non era più introversa ma aperta, inclusiva e universale. Cominciò a parlare (e cantare) per tutta una generazione, benché ciò fosse ben lontano dalle sue intenzioni. Tremo al pensiero di quello che avrebbero potuto essere gli ultimi decenni senza il continuo commento non allineato fornito dalla musica e dai testi di Robert (e, quando parliamo dei suoi testi, ovviamente dobbiamo riferirci anche ad Alfie, giacché la loro è un’autentica collaborazione creativa). Una volta Robert ha detto che non ha nulla contro le canzoni senza senso, perché quando ne hanno è – più spesso che no – un senso che a lui non piace.

Così cominciai a lavorare a quel romanzo. Avevo già un titolo – What A Carve Up! [in Italia: La famiglia Winshaw] – e un’idea piuttosto precisa della trama e della struttura. Era un libro ambizioso e la principale ambizione era scrivere qualcosa di profondamente politico senza dare ai lettori l’impressione di un’arringa. Combinare la rabbia con il calore e l’umanità.

Era possibile? Per lungo tempo non ne fui certo. Sedevo alla scrivania ogni giorno e ogni sera, e scrivevo quel che riuscivo, che non era granché. In quello stesso anno comperai l’album Dondestan di Robert Wyatt, praticamente il giorno stesso dell’uscita. Era il primo vero album dopo Old Rottenhat, a distanza di sei anni circa, e improvvisamente, risentendo quella voce, entrando in quel mondo musicale, ascoltando quei testi in cui l’impegno politico era sempre convissuto con la generosità e l’umorismo, mi si spalancò un mare di possibilità. L’ispirazione che cercavo era sempre stata sotto al mio naso.

Quanto alle sue canzoni, possono essere sghembe, certo; a volte eccentriche. Ma per me hanno più senso della maggior parte delle cose che succedono oggi nel mondo. Sempre più, Robert Wyatt mi pare la voce della ragionevolezza. Canzoni savie per tempi folli. Non c’è da stupirsi che io, come innumerevoli altri, ne sia stato ispirato e sollevato per così tanto tempo e che gliene sia grato per sempre.

Jonathan Coe, introduzione al libro Different Every Time, una biografia autorizzata di Robert Wyatt ad opera di Marcus O’Dair

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