CARTOLINE – Südtirol Jazz Festival Alto Adige 2025: i luoghi della musica

43esima edizione del festival altoatesino, la terza a cura di Stefan Festini Cucco, Max von Pretz e Roberto Tubaro, e non sono mancate le novità al Südtirol Jazz Festival Alto Adige 2025, che pare sempre più proiettato creativamente in avanti pur rimanendo fedele a sé stesso nell’impostazione di fondo – l’amore per la terra che lo ospita e il desiderio di condividerne la bellezza, a fare da sfondo a uno sguardo privilegiato verso il jazz europeo e le giovani generazioni –, ed è un mix che ne fa una delle manifestazioni più peculiari nel panorama italiano e non solo.

Novità, in questo lungo festival che si è svolto dal 27 giugno al 6 luglio scorsi offrendo ben 60 concerti, come la linea di esplorazione “Sound”, un invito all’ascolto di come il suono, al di là dei confini tra generi musicali, può agire sullo spazio – industriale o naturale che sia – e viceversa. Un’interazione cominciata già in apertura di festival, come Industrial Echos, in un ex-stabilimento di lavorazione dell’alluminio ora parco di innovazione tecnologica, tra alcuni membri dell’eccellente Brainteaser Orchestra di stanza in Olanda, a cavallo tra raffinata improvvisazione e composizione di stampo contemporaneo, prima di unirsi all’orchestra stessa – diretta dal tastierista e compositore Tijn Wyberga – con il suo suono ampio ed incalzante, magnifico impasto tra fiati, archi, sezione ritmica e uso di samples preparati, per un concerto all’aperto di grande vigore e godibilità.

Di tutt’altro stampo, il pomeriggio seguente, l’interazione di nove musicisti della stessa Brainteaser, in Floating Through Sound, con i suoni naturali di un bosco che si inerpica sul Monte San Vigilio, e gli ascoltatori che uno a uno salgono ondeggiando in seggiovia, sospesi nell’aria, con le improvvisazioni ora lievi ora decise dei musicisti sparsi lungo il percorso ad intrecciarsi per qualche instante, e a fare da eco alle pulsazioni dell’ambiente: ascolto inusitato e onirico, bellezza impalpabile e fugace, impatto emotivo.

Floating Through Sound/Alessandro Fongaro (foto: G. Pichler)

Degna di nota anche la presenza, nell’orchestra olandese, degli italiani Nicolò Ricci (sax), Federico Calcagno (clarinetto basso) e Alessandro Fongaro (contrabbasso), che con Sun-Mi Hong alla batteria formano il quartetto Pietre capitanato da Fongaro, esibitosi nella splendida cornice della Biblioteca Civica di Bressanone, la stessa sera. Formazione che, per quanto esista da pochi anni (due finora i dischi realizzati, nel 2022 e nel 2024), dà una promettente prova di sé, con la batteria della coreana a sostenere con decisione, oltre che con tatto, assieme alla propulsività del contrabbasso, le melodie ora nervose e angolari, ora solari, dei due fiati e la maestria e verve improvvisativa di Calcagno, di cui si era avuto sentore peraltro già all’interno della Brainteaser.

Degli incontri fecondi che possono realizzarsi in terra olandese, del resto, si è avuto un’ulteriore prova con il set incalzante del duo Raw Fish, con l’italiano Giovanni Iacovella, notevolissimo e quanto mai vibrante alla batteria, e l’altrettanto convincente chitarrista danese Teis Semey,  già coinquilini ad Amsterdam. A fare da sfondo il club Sudwerk, da diversi anni ormai “il luogo” del festival per il pubblico notturno amante della sperimentazione, e che ha ospitato tra gli altri anche Signe Emmeluth, sassofonista di punta della scena scandinava, e il suo quartetto Amoeba: musica di ricerca, vicina tanto al jazz più creativo e free quanto a sonorità contemporanee, musica radicata in una concezione compositiva delineata e rigorosa, ma di grande dialogicità e molteplicità di temperie sonore, ed è una  musica di autorevolezza femminile che vorremmo ascoltare sempre di più.

Signe Emmeluth’s Amoeba (foto: Sario)

Un festival avventuroso, il Südtirol Jazz Festival Alto Adige, e sempre più attento ai linguaggi della contemporaneità, senza inibizioni di genere: come avventuroso è stato l’intenso solo di Francesco Guerri, di sapore antico e moderno allo stesso tempo, lavoro dove l’improvvisazione si compenetra con la scrittura, con ampi riferimenti a “Su Mimmi non si spara!” (terzo lavoro solistico di Guerri, RareNoise, 2019). Raffinato lavoro a cellule ritmiche e armoniche, varietà di tecniche e uso anche percussivo dello strumento, il gesto che libera la scrittura, e che si fa quasi ipnotico entrando in relazione con l’ambiente e con chi ascolta – qui una distilleria ed un pubblico attentissimo –, per una musica sempre a fuoco, che sa comunicare.

Ugualmente avventurosa, la performance dirompente e irriverente di Delphine Joussein e del suo progetto solistico Calamity in perfetta sintonia con il padiglione fieristico che l’accoglie, in notturna: perché se la flautista francese domina l’idioma del jazz di ricerca e non rifugge le ballate, anche alla voce, qui programmaticamente svela il “lato oscuro del flauto”, un “coltello affilato”, come lo definisce lei stessa, che ferocemente, tra loop, effetti, distorsioni, vira verso un noise scuro e dal sapore apocalittico, e anche questo è un gran bell’ascoltare.

Delphine Joussein (foto: Sario)

Molte le proposte che chi scrive non ha potuto a seguire, ma che pur rendono conto della direzione aperta e musicalmente cosmopolita del festival: come il duo di Camila Nebbia e Dan Kinzelman, il quartetto della trombonista tedesca Antonia Hausmann, il dialogo tra la cantante di origine mongola Enji Erkhem e il batterista Simon Popp, entrambi di stanza a Monaco di Baviera, o come la nuova sezione “Jazz Chemistry”, che vedeva interagire di volta in volta, in luoghi “altri” della città – la libereria, il negozio di dischi, lo studio di yoga – artisti che non avevano mai suonato assieme, nel segno dell’imprevisto. Tra gli altri, Filippo Vignato e Andreas Tausch, Camila Nebbia e Andreas Lettner, Francesco Guerri e Kenji Herbert, o ancora, Signe Emmeluth e Kit Downes, quest’ultimo presente al festival anche nel valido trio cameristico Szelest del chitarrista tedesco Ronny Graupe con la cantante svizzera Damaris Brendle, a interpretare qui i testi di Lucia Cadotsch (membro stabile del trio, si veda “Newfoundland Tristesse”, 2025), oltre che a rivisitare in modo personalissimo alcuni standard.

Come già nelle passate edizioni, poi, in programma anche la rimusicazione di un film muto – con il sax di Dan Kinzelman ad amalgamarsi ai De Beren Gieren, e con questi punteggiare, ma anche sapientemente orientare la visione del bizzarro e inquietante “Der Mandarin-Storia di un pazzo” del 1918 – e il consueto appuntamento presso la Fondazione Dalle Nogare, che ancora una volta ha saputo coniugare arte e musica con due concerti decisamente da ricordare. Nel primo di questi, il trio Fade In (due dischi all’attivo, l’EP “Introspection” del 2020 e “Live Fast, Die A Legend” del 2022, Clean Feed Records) ci ha mostrato un’ulteriore lato della versatilità di Federico Calcagno, qui a fianco di Marco Luparia alla batteria e Pietro Elia Barcellona al contrabbasso, in un percorso sonoro che riesce ad ampliare il jazz e la musica contemporanea con impulsi dall’Oriente, nelle sue varie declinazioni (Indonesia, India, Giappone), e passando così, in eccellente interplay, da atmosfere riflessive e meditative, quasi minimaliste per il lavoro continuo su ripetizioni ritualistiche, a un’interazione nervosa e vicina alla contemporaneità, tra scrittura e improvvisazione. Ottima padronanza delle dinamiche e dei crescendo, uso non idiomatico degli strumenti, alternanza di chi guida e di chi segue, dialogando con fiducia.

Fade In (foto D. Fiorentino)

A seguire, il quartetto The Sleep of Reason Produces Monsters con la leader anglo-iraniana Mariam Rezaei – un’artista che, come turntablist negli ultimi anni si è potuta apprezzare sempre di più anche in contesto jazz –, Mette Rasmussen al sax, Gabriele Mitelli a pocket trumpet ed elettronica e Lukas König, più volte ospite a Bolzano, alla batteria. Possente, felice amalgama di caratteri e di umori, per quattro musicisti tra i più interessanti della musica creativa europea, all’insegna dell’improvvisazione totale: energia pura e veemente e ritmi serratissimi che sanno però farsi anche attraversare da momenti più intimi verso crescendo esplosivi.

E se l’edizione 2025 ha visto riproporre le camminate in montagna assieme ai musicisti (Jazz & Hike, con Kinzelman e Vignato in prima linea), accanto alla novità della sezione “Jazz for kids”, con workshop pomeridiano per bambini, a cura di Greta Marcolongo, in una forte ottocentesco ora adibito a museo, non è mancata nemmeno quest’anno, come già nelle edizioni più recenti, la suggestione di luoghi come le antiche miniere della Val Ridanna, a ospitare un elegante solo di Rainer Baas prima, e poi, l’ultimo giorno del festival, con Zoe Pia ad interagire a clarinetto e launeddas con l’antica tradizione della sua terra sarda, il canto a tenore dei Tenores di Orosei “Antoni Milia”.

E sono canti sacri, come scolpiti nella roccia, verso dopo verso, o canti profani più lievi e animati, quelli a cui Pia si accompagna, a volte preparando il passaggio con libere improvvisazioni o introducendone le melodie, a volte seguendo e assecondando il canto dei quattro tenoristi, con delicatezza e rispetto, e sintonia di intenti. Sono stati proprio i Tenores ad avvicinarsi per primi a quest’artista, e la volontà di intessere un dialogo fecondo con la contemporaneità ha colto nel segno: e non poteva esserci modo migliore di chiudere – con la “coda” della consueta festa notturna al Sudwerk – un festival di cui ci mancherà, ora che l’autunno sta per approssimarsi, l’ampiezza di vedute e la possibilità di far sì che l’esperire intenso di tanti singoli momenti si sedimenti come esperienza nel proprio vissuto sonoro, Erlebnis ed Erfahrung. E allora, appuntamento al 2026, tra fine giugno e inizio luglio!

Zoe Pia & Tenores di Orosei “Antoni Milia” (foto: G. Pichler)

Foto di copertina: Brainteaser Orchestra (G. Pichler)

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