“Figure in Blue” è il nuovo tassello della costruzione del personale pantheon storico – musicale di Charles Lloyd, connesso al precedente “The sky will always be there” di un anno fa. Un altro doppio album ricco di riferimenti ed omaggi ad epoche e personaggi del mondo musicale che ha ruotato intorno alla figura dell’ottantasettenne sassofonista : Duke Ellington, Billie Holiday, Langston Hughes, Zakir Hussein, Leonard Bernstein. Rispetto a quel lavoro, cambia la formazione: al posto del quartetto con Moran, Granadier e Blade, qui un trio drumless, a suggerire una più profonda attenzione alla dimensione spirituale e devozionale della musica espressa. Al pianoforte c’è sempre il fedelissimo Moran, mentre la sorpresa si chiama Marvin Sewell, giovane chitarrista di Chicago cresciuto a blues e jazz con connessioni nella tradizione del Missisipi Delta, già al fianco di nomi autorevoli del panorama musicale statunitense come Regina Carter, Christian Sands, Cassandra Wilson ed, appunto, Jason Moran. Due comprimari che si muovono in assoluta coerenza con le coordinate di un progetto intimo, riflessivo ed orientato alla introspezione, assicurando, talora, lo sfondo ideale per la voce di Lloyd, altrove conducendo in proprio un dialogo costruito su minimali e raffinati scambi melodici. La dimensione rarefatta consente una “presa diretta” con l’espressività del sassofonista, fatta di slanci melodici, assertive affermazioni e fraseggi articolati che paiono riprodurre la forza e la debolezza delle emozioni umane.
Come nel disco precedente, non è semplice dare conto di tutte le fonti che contribuiscono ad un programma così esteso ed articolato, che prende avvio con due composizioni dai connotati tipicamente innodici di grande impatto melodico come l’inno cristiano “Abide with me” e l’invocazione ai valori della Choctaw Nation, una tribù di nativi americani legata alle origini familiari di Lloyd di “Hina Hanta, the way of peace”.
“La mia bisnonna Sallie Sunflower Whitecloud rifiutò di attraversare il Cammino delle Lacrime, e divenne schiava per potere stare vicino al mio bisnonno -spiega Lloyd. “Era una donna intelligente che conosceva molte cose sul mondo naturale. Mi ha mostrato un sentiero che è in fragile equilibrio e deve essere rispettato. Conservo da sempre le sue canzoni nel cuore“.
Un sornione profilo ritmico sudamericano accompagna la dedica a Duke Ellington che intitola l’album, sempre più defilato nel corso dello sviluppo fino a sfiorare l’ astrazione, prima di una immersione delle introspezioni e nelle rarefatte atmosfere delle autoesplicative “Desolation sound” e “”Ruminations“. Quindi due omaggi al blues, rappresentato dalla chitarra bottleneck di Sewell, “Chulahoma“, un duetto fra le sei corde ed il sax, e “Blues for Langston“”, nella quale le dodici battute accompagnano i vorticosi fraseggi del flauto di Lloyd.
Fra le numerose ballads spicca “Song my lady sings“, introdotta da un lungo duetto del pianoforte e della chitarra acustica cui si unisce nella parte finale un timoroso sax che gradualmente rende più perentorio il proprio fraseggio.
Ma i brani dal maggiore impatto emotivo sono quelli legati a musicisti che hanno fatto parte della storia di Charles Lloyd.
Duke Ellington, di cui vengono riproposte “Black butterfly“, avvolta nel blues giustapponendo il solo ricco di echi be bop di Lloyd a quello della chitarra cristallina di Sewell ed “Heaven“, estatica ballad che affida ampio spazio alla chitarra .
“Quando io e Duke eravamo ad Antibes insieme nel 1966, lui fu molto incoraggiante e mi disse: “Se continui a mescolare la zuppa, un giorno otterrai qualcosa”. Johnny Hodges e Harry Carney mi invitarono ad andare con loro sulla tomba del grande Sidney Bechet , fui onorato che avessero sentito qualcosa nel mio suono che li portasse a dividere con me quell’esperienza. Fu come un’iniziazione, una sorta di benedizione”.
Billie Holiday, a lei è dedicata una “The Ghost of Lady Day” carica di dramma e dolcezza, epica blues attraversata dai fendenti della chitarra, e da un sax che aggroviglia note e sentimenti in un crescendo parossistico. Uno dei capolavori del disco.
“Lei era tutto per me e sapevo dal suo tono angosciato che lei era in grado di comprendere tutta la mia solitudine e trascuratezza. Mi diede un motivo per cui viveere. Il giorno che avrei potuto arrivare a New York per salvarla dalla sua disperazione, non arrivai in tempo “.
Zakir Hussein, il percussionista indiano scomparso lo scorso anno, cui è rivolto l’etereo “Hymn to the Mother, for Zakir”, segnato dalla slide di Sewell. Parte del trio Sangam con LLoyd ed Eric Harland, il virtuoso di tablas incontrò il sassofonista in un concerto tenuto poche settimane dopo l’attentato delle Torri Gemelle presso la San Francisco Grace Cathedral “Fui subito colpito dal calore e dall’umanità di Zakit e la sua amicizia, il suo spirito e la sua profonda comprensione del tutto mi hanno accompagnato fino alla sua inspeigabile perdita. Abbiano suonato questo pezzo in ogni concerto con Zakir e quando abbiamo iniziato le registrazioni, la sua perdita era molto recente. Volevo iniziare la session con un’offerta rivolta a lui“.
“Somewhere” da “West side story” chiude, infine, questo viaggio nel tempo e nel mondo di Charles Lloyd , nel modo più sconvolgente: un tenue soffio di sax che, cantando una melodia immortale, diventa un fragile gigante .
