Si inizia in una di quelle aule un po’ arrangiate e decadute delle nostre strapelate scuolette, dove ancora ci si ostina a costruire un futuro in un Paese di Pinocchi immemori. Un giovane insegnante parla di storia ai suoi giovani allievi in una luminosa giornata d’estate, siamo agli sgoccioli dell’anno, il momento in cui magari ci si dice qualcosa di veramente serio al di fuori di verbosi precetti ministeriali o di grotteschi quiz valutativi che ricordano da vicino le gloriose schedine del Totocalcio.
Ma paradossalmente il nostro giovane insegnante ha un problema con il suo passato personale: è nato già orfano, giusto pochi giorni dopo la scomparsa del padre, che quindi non ha mai conosciuto. Di lui gli rimangono una manciata di foto e qualche video, qualche ricordo filtrato dalla memoria materna. Ma non basta, anche perché il padre assente non è uno qualsiasi.
E così come Telemaco decide di partire alla ricerca delle tracce del suo Ulisse assente, nei suoi luoghi e con le persone che lo hanno conosciuto, anche lui sale sulla sua utilitaria e punta verso Roma, inseguendo le tracce di un padre che è stato famoso per molti, ma sconosciuto per lui .
Comincia così ‘Easy to love. La vera storia di Massimo Urbani’, un bel documentario firmato da Paolo Colangeli e prodotto da RAI. Non illudetevi però di vederlo in onda anche solo su un qualche canale tematico per soli adepti, ve lo dovrete andare a cercare su Rai Play qui. Sorvoliamo su ogni considerazione e vediamo la metà piena del bicchiere: ve lo potrete riguardare ad libitum, scandagliandolo scena per scena, merita.
… e pensare che il tema era la sigla di un ciclo di film presentati alla RAI 1.0 da un famoso critico
Il documentario jazzistico è un genere pressochè sconosciuto nella nostra ridente Italia, che pure potrebbe fornire ampia ed insondata materia al filone. Aggiungiamoci che i pochissimi volonterosi che vi si sono cimentati hanno dovuto fare i conti con povertà francescana di mezzi (soprattutto difficoltà di inserire clips musicali di un certo rilievo per i cospicui costi dei diritti) e con l’abbandono e le lacune degli archivi audio e video nostrani, particolarmente quando si risale a quel periodo a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80 del secolo scorso in cui si sviluppa la meteorica carriera di Massimo Urbani.
Uno dei ‘frammenti’ girati da Colangeli nel 1993, sulla terrazza di casa sua
Il lavoro di Colangeli ha poi una caratteristica singolare: è una sorta di fenice che nasce da spezzoni girati nel 1993 dallo stesso regista, ma rimasti un’incompiuta a causa della morte di Urbani nel bel mezzo delle riprese.Ma spesso nel cinema le gestazioni più problematiche ed anomale portano a risultati difficilmente raggiungibili con pianificazioni minuziose e scrupolose: nella cornice della narrazione al giorno d’oggi risultano incastonati frammenti di grande suggestione, come l’intervista – performance in solo di Urbani in una fabbrica deserta ed abbandonata, riempita dal suono del suo sax alto.
‘What’s new’ da ‘The Blessing’: il rapporto viscerale di Urbani con gli standards
Questo mix di passato in presa diretta e di memoria nel presente è un motivo di fascino del film, che si distacca nettamente dalle convenzioni del documentarismo di oltreoceano, spesso appesantito da una certa enfasi celebrativa ed agiografica: qui tutto scorre con fluida informalità in una dimensione di spontanea quotidianità. Vediamo Massimo jr. (e già, porta lo stesso nome… e suona anche il clarinetto, il DNA non mente) infilarsi in una mattinata di prove nello splendido parco di Villa Osio (Casa del Jazz), dove incontra Enrico Rava, che a fine anni ’70 porta un Urbani ancora adolescente a New York suscitando l’ammirata meraviglia di Sonny Stitt e di Phil Woods, i curatori per antonomasia dell’eredità di Charlie Parker. “Perché l’ho preso con me? Semplice, anche senza usare parole grosse, perché era geniale”, dice il ‘fratellino maggiore’ (definizione sua) di tanti jazzmen italiani che sono usciti dai suoi gruppi. Poi è la volta di Roberto Gatto, che oltre all’energia incontenibile di Massimo sr. rammenta la fatica di tener dietro ai suoi improvvisi e brucianti cambi di tempo: “posso ringraziare solo il fisico dei miei vent’anni”, e subito appare un’istantanea anni ‘80 un poco sfuocata che lo vede a fianco dell’inarrestabile sassofonista, entrambi ragazzi. Poi tra molti altri sfilano Paolo Fresu e Stefano Di Battista, altri due accomunati ad Urbani dal fatto di sbucare dal nulla, da retroterra svantaggiati in tutti i sensi, in primis da quello culturale.
Macerata 1987. Parker non è un modello, è una fede..
E qui si arriva al punto cruciale: quel miracolo che ha fatto nascere dal nulla jazzistico di una Monte Mario popolare (e già allora piagata da un’epidemia dimenticata, quella dell’eroina, che ha decimato una generazione al pari di una guerra) un talento straordinario, uno che sta alla storia del jazz in Italia come Parker sta a quella del jazz americano. E questo in assenza di una qualsiasi preparazione teorica e tecnica, con il solo aiuto di qualche disco suonato sino alla consunzione e forse della banda, chissà.
Urbani è il paradigma, il portabandiera di un’intera generazione di jazzmen italia che ‘si sono insegnati da soli’, come mi è venuto da dire tempo fa, ma così facendo hanno attinto a quella che è l’anima del jazz, una pratica da costruirsi insieme, quotidianamente, spinti dall’urgenza e dalla necessità di dire qualcosa per cui non ci sono ancora parole, o quantomeno non ci sono quelle giuste, fresche, non logorate dai cinismi retorici. I “Nuovi sentimenti”, dell’ album di Giorgio Gaslini, appunto. Nulla che possa esaurirsi in un dotto trattato o in una serie di canoni accademici uniformi e cristallizzati.
Questa generazione di ‘jazzisti selvaggi’, come mi permetto di chiamarli con molto affetto e con ancor più rimpianto, sta per uscire di scena, per un motivo o per l’altro. Massimo Urbani li ha preceduti di molto, la consumante passione per la musica non è bastata a salvarlo dalle insidie che si portava dietro. Altri – non tutti, però – sono approdati a vite più ‘normali’, ad una maturità più serena: anche nella loro musica di oggi c’è una freschezza ed un calore che è un riflesso delle brucianti performance di Massimo, ahimè irraggiungibili e non replicabili in una scena odierna confinata in ‘riserve indiane’, in nicchie di pretesa accademica. E soprattutto in luoghi della musica alquanto paludati, che anche involontariamente creano barriere di esclusione. E la musica che si fa oggi in queste condizioni decisamente più protette ed idonee sarà anche più levigata e formalmente affinata, ma quasi mai mostra un filo della bruciante passione e necessità di quella di Urbani e compagni.
Urbani eccelle nella dimensione live, fortunatamente testimoniata da alcuni album postumi
Il punto è che nei deprecati anni ’70 ed ’80, quelli dell’apprendistato dei ‘selvaggi’, la musica non stava negli iperuranii del web, ma nei luoghi di tutti i giorni. Ma soprattutto: “Un tempo la musica era un’urgenza. Un linguaggio identitario, un rifugio, una forma di lotta (….). La musica ti sceglieva, e tu – se accettavi – non ne uscivi più uguale”. Complimenti Nicola Gaeta, non si poteva dire meglio. E questo valeva sia per chi la faceva, che per chi la ascoltava come un’esperienza profonda.
Ah Luca Flores, un’altra meteora….
Il documentario di Colangeli è bello, importante e prezioso perché ci porta le rare ‘schegge’ rimaste di quell’epoca, le sue ultime voci che è ancora possibile ascoltare oggi. Ed il tutto senza melensaggini e sentimentalismi, anzi non ci si tira indietro nemmeno di fronte ai lati oscuri della storia, che trovano un culmine nel racconto delle ultime ore di Massimo fatto da suo fratello Maurizio. ‘Easy to love’ era il titolo di uno dei più curati e rifiniti album di Urbani: ma vivergli e lavorargli accanto non era affatto ‘easy’, come testimoniano compagni di vita e di musica, che però a trent’anni di distanza non riescono ancora a dimenticarlo.
SI arriva alla fine di questo viaggio a ritroso nel passato, che si svolge quasi sempre in ambienti veri e quotidiani (e che qualche volta portano anche il ricordo di tempi migliori), nessun leccato interno ‘arredato’ tipico del nostro piccolo cinema d’oggi. Tra i molti momenti intensi, al limite della commozione, rimane impresso il nostro parkeriano irriducibile che ci regala una perla di lucida e sorprendente saggezza, qualcosa che dovrebbe comparire a caratteri di scatola in tutti i luoghi dove oggi si fa questa musica: “Ormai è stato detto tutto, provato tutto, fatto tutto, formalmente parlando. Ma l’avanguardia è nei sentimenti” . Ascoltatelo dalla sua voce. Milton56

Grazie di cuore
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Ti ringrazio sempre per quello che fai!
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…e di che? Io parlo di cose che mi appassionano. Un poco più faticoso è setacciare quella bolgia di YouTube alla ricerca di clips che possano dare una sostanza alle tante parole. A proposito: se Urbani vi ha toccato, cercate sul Tubo video di suoi live, in cui la sua carica di energia emerge più nitidamente di quanto non avvenga su gran parte delle sue incisioni discografiche. Tenete presente che sono materiali di origine un poco borderline e facilmente potrebbero sparire per i soliti reclami di chi li ha tenuti a marcire negli archivi….
Per esempio questo:
Milton56
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Eh come associazione MUJIC stiamo cercando di convogliare tutti questi contenuti su un unico punto di accesso per Massimo Urbani: http://www.mujic.org
Anche questo articolo sarà inserito come riferimento all’interno del sito (sezione “tutto sul man” => “dicono di lui” 😉
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