L’inquietudine nei sogni di Brahma

Giocare d’anticipo è una pratica tesa a prevenire ed anticipare le mosse dell’avversario, ma anche un modus applicabile a molte attività umane. In questo mio post sto giocando d’anticipo su quello che tra poche settimane troverete su ogni sito (compreso il nostro) o magazine dedicato alla musica jazz: la classifica dei migliori album dell’ anno.
Ma il mio non sarà propriamente un elenco di nomi e album, che sicuramente i miei tre amici di Tracce di Jazz non vi faranno mancare, bensì un semplice e minimale resoconto dei due album che più ho amato e ascoltato in questo prolifico 2025.
La mia scelta solo casualmente prevede un album italiano e uno australiano (anche se qui non si tratta di un singolo ma di ben 3 CD ), ma ovviamente ci sono molti altri musicisti che si sono espressi con lavori di ampio respiro e pari valore dei due nominativi che vi propongo. Semplicemente questi sono gli album che più hanno stazionato nel mio lettore e, nonostante ciò, lo dico con stupore, ancora trovo passaggi e momenti di grande intensità che nonostante i ripetuti ascolti mi erano sfuggiti.
Ascoltare tutto quanto è stato pubblicato solo in quest’anno rimane impresa improba, mentre le vendite continuano a languire le nuove uscite sembrano non avere un limite. Impossibile tenere il passo, meglio a mio parere concentrarsi su quelle pubblicazioni che hanno tutte le caratteristiche per diventare dei must , o perlomeno di elevarsi sopra le altre.
Ecco pertanto i due album ( o meglio 1+3) che per me hanno nobilitato l’ anno.

Dino Betti Van Der Noot – Brahm Dreams Still

Ogni volta che esce un nuovo album di Dino Betti (questo è il diciassettesimo, a due anni dal precedente, come da tempo il leader ci ha abituato), il miracolo, per me, si ripete. Sto ascoltando a ripetizione questo Brahm Dreams Still, uscito poco più di un mese fa un po’ in sordina, come d’abitudine per l’ottantanovenne compositore milanese d’adozione. E le impressioni sono, come sempre, di trovarmi di fronte a grande musica. In questi tempi difficili una consolazione non da poco, soprattutto se proviene da un compositore quasi sempre ai margini del palcoscenico più importante, quasi mai sotto le luci di un riflettore, ma non per questo meno creativo e rigoroso. Stupisce la freschezza di scrittura, l’ ispirazione che non cede all’ avanzare dell’ età, la bellezza  struggente di pagine intrise di dolce malinconia e, al tempo stesso, di complessità armoniche e ritmiche degne dei grandi della musica jazz.

Volendo fare un impreciso e fantasioso paragone calcistico, Betti è come Gasperini: prende in mano una compagine di buoni musicisti, sempre gli stessi, e riesce a farli esprimere collettivamente come probabilmente mai nessuno di loro è riuscito singolarmente. Una dote che lo accomuna ai nomi sacri, che dietro sta a significare il grande rispetto e l’ amore reciproco che accomuna questi ragazzi con il loro mentore.

L’ album è di una bellezza commovente: Betti crea momenti di allucinata sospensione, dove gli strumenti si alternano ora in solo, in duo, con insiemi attentamente studiati ed evocativi, lasciando sempre la libertà ad ogni strumento all’ interno di cellule melodiche ripetute o di gabbie armoniche di freschezza inaudita.

I primi due brani, i più lunghi, sono una meraviglia dopo l’altra, scopriteli piano piano, con ascolti continui, il connubio tra le percussioni, i fiati, gli intrecci tra i solisti creano atmosfere intrise di attesa e di pacata bellezza.

Ma è tutto l’ album, 48 minuti complessivi, che affascina e avvince, senza un momento di tregua. Una nota la merita il titolo: Brahma ancora sogna, ispirato ad un racconto di Kipling che scrisse “quando Brahma smette di sognare, l’ universo cessa di esistere”. Il titolo del mio post invece è la traduzione del secondo brano, A Cristalline Windless Sea, una musica di serena complessità per sognare un tempo e un mondo migliore. I riferimenti letterari, come Betti ci ha abituato nel tempo, non mancano: in Faraway Mountains Turning into Clouds, Shakespeare e Aux Premiere Heures Bleuse, Rimbaud. Anche la copertina è un continuum della discografia di Betti, ed è un dipinto di Allegra, la figlia del compositore.

Guglielmo LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Fabio Brignoli (trombe e flicorni), Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena (tromboni), Gianfranco Marchesi (trombone basso), Sandro Cerino (flauto, clarinetto basso e sax alto), Andrea Ciceri (sax alto), Giulio Visibelli (flauto alto e sax tenore), Rudi Manzoli (sax tenore), Gilberto Tarocco (clarinetto, clarinetto basso, sax baritono), ma anche i ricami di Luca Gusella (vibrafono), Vincenzo Zitello (arpa clarsach), Emanuele Parrini (violino), Niccolò Cattaneo (pianoforte) e Danilo Mazzone (tastiere),Gianluca Alberti (basso elettrico), Stefano Bertoli (batteria), Tiziano Tononi (snare drum, udu drum e percussioni) e Federico Sanesi (tabla, pakhawaj, darabouka, tanpura, campane, campanacci, stone chimes e ocean drums).

The Necks – Disquiet

The Necks sono un gruppo musicale australiano che si distingue per la sua proposta unica e sperimentale, caratterizzata da lunghe improvvisazioni che evolvono lentamente, creando un’atmosfera immersiva e ipnotica creando paesaggi sonori complessi e sfumati con un approccio molto personale alla musica improvvisata.

Il trio (Chris Abrahams (piano, tastiere), Lloyd Swanton (contrabbasso, basso) e Tony Buck (batteria, percussioni) è attivo da ormai quarant’anni, con una ventina di album pubblicati con una metodologia unica nel panorama musicale contemporaneo, un vero marchio di fabbrica costruito sulla improvvisazione totale, consentita proprio grazie al lungo e consolidato lavoro di insieme e di interplay. Per quanto la formula si ripeta in tutti gli album, gli elementi che la compongono (jazz, minimalismo, post rock) fanno si che ogni volta suoni nuova e imprevedibile alle attente orecchie dell’ascoltatore.

Già il titolo dei tre album, Disquiet (inquietudine) è indicativo delle atmosfere, dei colori e delle suggestioni che lentamente affiorano, si consolidano e svaniscono nel divenire della musica. Delle quattro composizioni, tutte sullo stesso livello espressivo, ho una particolare predilezione per  “Warm Running Sunlight”, più di mezz’ora di musica stupefacente, che attinge anche a suoni ambientali, voci umane e frinire di grilli.

L’impegno all’ascolto è consistente: tre cd per oltre tre ore di musica:  quattro le tracce, “Causeway” (circa 26 minuti), la citata “Warm Running Sunlight” (circa 32 minuti), “Rapid Eye Movement” (circa 57 minuti) e “Ghost Net” (oltre 74 minuti).

Disquiet  segna un punto di evoluzione nel loro suono, pur mantenendo la loro essenza distintiva di improvvisazione, ripetizione e costruzione graduale. Quattro lunghe tracce  che, come sempre nei lavori dei Necks, sono costruite lentamente e si sviluppano in maniera organica. Disquiet è un’esperienza che invita alla meditazione, un viaggio sonoro che può sembrare sia statico che in continua trasformazione.

I Necks richiedono ascolto partecipato e concentrato, in cambio offrono soluzioni originali e un flusso sonoro che come una marea lentamente sale e conquista con microvariazioni e arpeggi inusitati. Lontano dalla ripetitività di certo arido minimalismo e dai furibondi eccessi dell’improvvisazione più radicale, la musica propone un percorso ogni volta imprevedibile architettato dalle tastiere ma sempre supportato da basso e batteria, a loro volta molto lontani dal concetto di mero accompagnamento. Tony Buck è un batterista capace di attingere a musiche altre, il particolare uso dei piatti ha colori e riferimenti a culture orientali, e il suo non è mai accompagnamento passivo, al contrario stuzzica e provoca situazioni in divenire. Lloyd Swanton rappresenta l’ancoraggio ritmico, la pulsazione che non cessa, il perno sul quale ruotano le tastiere immaginifiche di Chris Abrahams.

Disquiet segue una linea di continuità con gli album precedenti della band, ma con un focus maggiore su tensione e oscurità. La sensazione di inquietudine del titolo si manifesta nel suono stesso, che a tratti può risultare disorientante, senza mai essere del tutto dissonante o aggressivo. La sensazione complessiva, però, non è mai quella di essere sopraffatti, ma piuttosto di essere immersi in un flusso sonoro in continua evoluzione.

I Necks non suonano come altri gruppi jazz o di pura improvvisazione. La loro musica non segue un percorso tradizionale di “crescita” o “culmine”, ma piuttosto crea un paesaggio dove l’ascoltatore è chiamato a sperimentare un senso di tempo dilatato, dove ogni nota sembra essenziale per la struttura complessiva del pezzo. I loro album non sono destinati a un ascolto casuale, ma a un’attenzione concentrata. Questo è uno dei motivi per cui sono considerati dei maestri del minimalismo e dell’improvvisazione moderna

Disquiet è un altro capitolo affascinante nella discografia dei The Necks, che dimostra ancora una volta la loro abilità unica nell’articolare suoni che sfidano le convenzioni musicali tradizionali. Come sempre, è un ascolto che richiede pazienza e una certa predisposizione a lasciarsi trasportare, ma per chi è disposto ad immergersi, l’album offre un’esperienza sonora profonda e soddisfacente.

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