Forse qualcuno di lor signori avrà seguito il botta e risposta tra l’amico Rob53 ed il sottoscritto a proposito della figura di Guido Manusardi.
Nel mio commento allargavo il discorso, aggiungendo che la medesima ombra che oscura la carriera di Manusardi ahimè grava anche sulle vicende di vari altri musicisti italiani delle generazioni precedenti e di poco successive alla sua. Seguivano altre considerazioni ed invettive. Ad un certo punto ho sentito una nota vocetta sarcastica che diceva: “Va bene che voi siete quelli della cerbottana, ma tirare almeno un vostro modesto bussolotto contro questa congiura dell’oblio e del silenzio? Giusto per salvar l’onore…tanto non se ne accorgerà nessuno 🙂 ”. In effetti, l’argomento dell’Impolitico ha una certa presa in tempi di risorgente retorica guerresca e di militarismo da poltrona.
E quindi eccomi qui, armato dei nostri miseri mezzi, ad iniziare una serie di piccoli ricordi sulle tante, troppe pagine bianche della storia del nostro jazz, che prevalentemente si addensano sui decenni ’50, ’60 ed in parte ’70 dello spirato XX secolo. Se l’ispirazione ed i rari materiali documentari lo consentiranno, si proseguirà in questo sbiadito album di famiglia, che riserverà non poche sorprese, almeno credo (e spero)

In questa ricerca del Tempo Perduto iniziamo con un soggetto che più dimenticato e fascinoso non si potrebbe. “Umberto Cesari, chi era costui?”. Nel caso di specie, oblio ed oscurità possono esser in parte messi in conto allo stesso interessato, come si vedrà più oltre.
Ma la sua figura e la sua musica (quella poca che ci è rimasta) ha caratteri del tutto straordinari se riportati alla scena musicale del secondo dopoguerra in cui Cesari mosse i primi passi. Parliamo di un’Italia ancora ridotta ad un deserto di rovine, quella di ‘Umberto D.” e di “Ladri di Biciclette” e di altri grandi film neorealisti, girati in strada e dal vero. Un paese dove però la musica aveva una funzione importante, e rappresentava una via di fuga da un passato terribile e da un presente di privazioni.

L’isolamento quasi ventennale rendeva però il paesaggio musicale italiano alquanto angusto e provinciale: le uniche aperture al mondo erano i mitici V-Disc americani, che peraltro non avrebbero nemmeno dovuto circolare tra i civili ed erano programmaticamente destinati alla distruzione a guerra finita. C’era qualche vaghissimo sentore di quello che di nuovo stava accadendo oltreoceano, ma niente di più: anzi, col graduale ritorno ad una certa normalità del quotidiano non mancò una certa insofferenza anche del nuovo establishment politico e soprattutto culturale verso le ‘musiche americane”. E se già velenosi strali venivano scoccati contro il Dixieland delle orchestrine amatoriali o lo Swing alla Glenn Miller (ma anche alla Gorni Kramer, od alla Natalino Otto), figuriamoci cosa sarebbe successo se si fosse solo sospettata l’esistenza di qualcosa come il bebop. Il qual bebop sbarcò in Europa solo nel 1949 nell’epocale Festival Jazz di Parigi (meta esotica e pressochè irraggiungibile per la quasi totalità degli Italiani dell’epoca): e la capricciosa provvidenza della musica volle pure che un Charlie Parker in pessima forma suscitasse non poca delusione e disappunto tra i ben più smaliziati jazzfans francesi.
E se Parker era praticamente uno sconosciuto, figurarsi un Lennie Tristano, musicista per soli iniziati già negli States. Ed invece il nostro nell’Italietta dopolavoristica e canzonettistica dei primi anni ’50 in piena autonomia partoriva questo raffinato brano, tutto imbevuto di una perlacea ed esoterica raffinatezza cameristica che non avrebbe minimamente sfigurato nella cripta degli adepti tristaniani. Non solo: ma c’è anche il rischio che Cesari fosse approdato a questa musica sin dalla fine degli anni ’40 e che la stessa sia persino passata in radio.
Scusate la vaghezza, ma tutto quello che riguarda il nostro Cesari è in buon parte avvolto dalle nebbie del mito: a parte le preziose clips che vedete qui, in pratica oggi di lui ci resta un solo album, “Reminiscenze 1975”, pubblicato dalla compianta Carosello, nella splendida collana ‘Jazz from Italy”, da cui anche in futuro cercheremo di attingere a piene mani. En passant, nessuno che abbia voglia e tempo di rimettere mano a questi nastri, sempre che ci siano ancora?
Da autentico e sicuro stilista qual’era, il nostro si misura sugli standard: provate a trovarmi un ‘How high the moon” con un’introduzione più sorprendente e sconvolgente di questa, che destabilizza completamente anche il successivo sviluppo del brano dopo la ritardata emersione del tema.
E questa altrove consuntissima e romantica “Laura”, che qui sembra più che altro trasformarsi nella Morticia della celebre Famiglia Addams?
L’inarrivabile Morticia di Angelica Houston….
Ma c’era anche un cotè più sorridente ed estroso del nostro Umberto, un suo volto in cui è stata vista l’ispirazione e soprattutto l’esplosivo virtuosimo di Fats Waller…. Ah, dimenticavo, Cesari è stato espulso dal Conservatorio perché ‘non seguiva lo spartito’: del resto si tratta della medesima accademia che ha sempre tenacemente negato a Massimo Mila anche il più modesto incarico di Storia della Musica. Alla luce di quello che ascoltiamo, possiamo solo ringraziare la Provvidenza del Jazz che l’Accademia non ce lo abbia rovinato, il nostro Umberto.
Ma il sempre schivo Cesari da un certo momento in poi sparì del tutto dalla scena pubblica. C’è chi dice che il ritiro in un’inviolabile esilio privato abbia avuto a che fare con lo striptease di una certa signorina Aichè Nanà che all’epoca mise sossopra una bigotta Italia che nel frattempo stagionava amorevolmente Armadi della Vergogna destinati ad esser scoperti per caso decenni dopo. Solo la tenacia e l’astuzia di Adriano Mazzoletti riuscirono nel 1968 nell’impresa di stanarlo e letteralmente nel rinchiuderlo in uno studio radiofonico per un concerto tutto all’insegna dell’imprevisto e destinato a fare epoca (Rai Teche, ne sappiamo qualcosa?). Il confronto con certi ossessivi presenzialismi di oggi mi crea qualche disturbo di fegato. Comunque sembra che il nostro condividesse con Lennie Tristano l’abitudine alle registrazioni casalinghe: ad onta del ‘1975’ che spicca in copertina, il mio orecchio abituato ad incunaboli sonori d’ogni genere mi fa sospettare che parecchi brani di “Reminiscenze” in realtà risalgano a parecchi anni prima e che semplicemente siano stati portati belli e pronti alla Carosello dal nostro Umberto. Tale e quale a Lennie con l’Atlantic dall’altra parte dell’oceano.
E chiudiamo con una preziosa clip video, ad occhio risalente forse al 1968 (Umberto ci ha lasciato in punta di piedi nel 1992): traspare molto dell’anticonformismo e dell’estro di un personaggio che andava anche parecchi0 al di là dell’ambito musicale. Ah, dimenticavo: inutile cercarlo su RaiPlay……: indi affrettiamoci a vederlo, non si sa mai. Milton56
