Le ragazze del Kilimangiaro

Gli album di Miles che hanno scritto la storia sono numerosi, ma oggi ci occupiamo di un titolo ingiustamente ritenuto minore, ma che invece ad ascolto attento si rivela pieno di gemme. Personalmente è l’album che più amo di Miles.

Quando si parla della svolta elettrica di Miles Davis , la conversazione di solito salta subito a In a Silent Way o Bitches Brew. Sono gli album totem, quelli che hanno ridefinito il jazz e scatenato dibattiti infiniti.

Ma se volete sentire il momento preciso in cui il post-bop acustico inizia a miscelarsi in un nuovo linguaggio, l’album è davvero Filles de Kilimanjaro. È la cerniera: l’ultimo respiro del Secondo Grande Quintetto e il primo barlume della visione elettrica di Miles.

Registrato a giugno e settembre 1968 presso il 30th Street Studio della Columbia a New York e pubblicato tra il 1968 e il 1969, Filles de Kilimanjaro si colloca nella discografia davisiana tra Miles in the Sky e In a Silent Way .

Sembra una band in transito: ancora radicata nel post-bop conversazionale che il quintetto aveva perfezionato, ma ora colorata da strumenti elettrici, nuove idee ritmiche e un senso diverso dello spazio. Niente qui sembra una rottura improvvisa con il passato — ma nulla è nemmeno del tutto riconoscibile nelle vecchie definizioni. Per chiunque sia interessato a come evolve il jazz, questa tensione fa parte della sua magia.

Al momento di queste sessioni, il Second Great Quintet — Miles Davis, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams — aveva già trasformato il jazz moderno per piccoli gruppi attraverso una serie di album che andavano da E.S.P. a Miles SmilesNefertiti e Miles in the Sky.

La telepatia tra i musicisti era quasi uno strumento a sé stante. Filles de Kilimanjaro cattura la stessa chimica, ma con due cambiamenti cruciali: pianoforte elettrico e basso elettrico appaiono per la prima volta in modo sostenuto, e la sezione ritmica inizia a cambiare formazione.

L’album è stato registrato in due blocchi. Nel giugno 1968, Miles, Shorter, Hancock, Carter e Williams crearono il primo materiale, con Hancock al pianoforte elettrico e Carter al basso elettrico. Quando il progetto riprese a settembre, Chick Corea aveva sostituito Hancock e Dave Holland era subentrato a Carter, tornando al basso acustico ma con un diverso approccio timbrico.

Questo significa che un singolo album documenta due diverse sezioni ritmiche: la combinazione originale Hancock-Carter e la più recente coppia Corea-Holland che avrebbe sostenuto i primi gruppi elettrici. È un’opportunità rara per sentire il futuro arrivare in tempo reale.

Il titolo — tradotto dal francese come “Ragazze del Kilimanjaro” — è stato collegato al coinvolgimento di Miles nella Kilimanjaro African Coffee, un’azienda tanzaniana di caffè di cui era in parte proprietario, così come al suo interesse per l’immaginario africano in quel periodo.

Ma ciò che cattura subito l’attenzione è la copertina: la fotografia è di Betty Mabry, la giovane cantante e cantautrice che sarebbe diventata per un breve periodo la moglie di Miles, e che in seguito registrò album funk rivoluzionari con il nome di Betty Davis. La sua presenza non è una decorazione visiva. C’è un legame personale e musicale che attraversa l’album.

Nella sua autobiografia, Miles descrive come Betty lo introdusse alla nuova musica che esplodeva alla fine degli anni ’60, in particolare Jimi Hendrix, Sly and the Family Stone e James Brown. Non era un’influenza a senso unico — facevano parte della stessa scena a New York, mentre moda, arte e musica nera si scontravano e si influenzavano a vicenda. Ma Miles chiarisce che è stata lei ad aprirgli le orecchie ai suoni oltre il mondo del jazz.

Betty and Miles Davis. Isle of Wight Festival, 1970. Photo by Jim Marshall.

Quell’influenza si riflette più chiaramente nel brano finale dell’album, “Mademoiselle Mabry (Miss Mabry)”, che prende la sua base armonica da “The Wind Cries Mary” di Hendrix. È sia una rievocazione che un vero ibrido: musicisti jazz che reinterpretano il linguaggio rock attraverso il proprio vocabolario.

Filles de Kilimanjaro è composta da cinque composizioni estese:

  • “Frelon Brun”
  • “Tout de suite,”
  • “Petits Machins “
  • “Filles de Kilimanjaro”
  • “Mademoiselle Mabry.”

Invece di comportarsi come cinque pezzi non collegati, sembrano variazioni all’interno di un unico paesaggio in evoluzione. Le idee melodiche si estendono su forme lunghe, i pattern ritmici mutano lentamente e l’album nel suo insieme dona la sensazione di un arco narrativo lungo.

Ci sono momenti di interazione densa che potrebbero stare comodamente accanto a registrazioni precedenti per quintetti, e altri in cui la musica si apre in un groove più libero che accenna a rock e funk senza mai copiare nessuno.

Gli strumenti stessi cambiano la forma della musica. I primi esperimenti di Herbie Hancock con il pianoforte elettrico creano una texture più sostenuta e permettono all’armonia di fluttuare nell’aria invece di rimbalzare ritmicamente come un pianoforte acustico.

Quando Chick Corea si unisce al progetto, si muove liberamente tra texture acustiche ed elettriche, e Dave Holland porta un suono e una fraseggiatura di basso molto diversi rispetto a Ron Carter.

Ma Tony Williams rimane la forza vincente: la sua batteria spinge il gruppo avanti con un’intensità irrequieta, spezzando il tempo in frammenti e ricomponendo il ritmo in un modo che guida la musica senza fare affidamento su uno schema rigido. È affascinante sentirlo inclinare il linguaggio ritmico del quintetto verso una nuova direzione, senza mai abbandonare l’inventiva che rendeva così importante il suo lavoro precedente.

Accoglienza critica

Al momento della sua uscita, Filles de Kilimanjaro ricevette un misto di curiosità e ammirazione. Alcuni critici jazz non sapevano cosa pensare degli elementi elettrici e del modo in cui il disco evitava lo swing tradizionale a favore di figure ripetute e ritmi spaziosi. Altri capivano che stava succedendo qualcosa di significativo. Le pubblicazioni che guardavano oltre il mondo del jazz riconobbero il legame del disco con i cambiamenti più ampi nella musica e cultura nera, osservando che l’album funzionava quasi come una suite continua piuttosto che come un insieme di brani isolati.

Oggi, col senno di poi, è più facile vedere ciò che gli ascoltatori percepivano all’epoca: la musica si stava aprendo verso una nuova idea di cosa potesse essere una band jazz.

Nei decenni successivi, i critici musicali sono costantemente tornati a Filles de Kilimanjaro come punto di partenza del viaggio elettrico di Miles. Se In a Silent Way è la porta e Bitches Brew l’esplosione, Filles è il momento in cui la maniglia gira. Documenta la fine del linguaggio acustico del Second Great Quintet, l’arrivo di nuove idee e musicisti, e l’influenza personale di Betty Mabry nel momento in cui Miles iniziò ad assorbire seriamente la nuova ondata di funk, rock e musica nera amplificata.

L’album appare ancora esplorativo piuttosto che dichiarativo — ma è proprio questo che lo rende così coinvolgente. Non è una teoria conclusa. È un laboratorio.

Per gli ascoltatori di oggi, questo rende Filles de Kilimanjaro uno dei dischi più ricchi nel catalogo di Miles Davis. Si possono sentire il vecchio e il nuovo nello stesso respiro. L’intimità del quintetto è intatta, ma l’atmosfera è cambiata. La musica si muove in linee più lunghe, con un peso diverso e un nuovo rapporto con il ritmo. E c’è qualcosa di umano al centro: un ritratto sulla copertina, un nome nella tracklist e una conversazione invisibile tra la collezione di dischi di Betty e l’immaginazione di Miles.

Se avete sempre affrontato il periodo elettrico attraverso gli album più famosi di Miles Davis, rivisitare Filles de Kilimanjaro rivela una storia diversa. L’innovazione raramente avviene come un singolo momento. Arriva a tappe. Questo album cattura uno degli stadi più importanti del jazz moderno.

Articolo tradotto e adattato dal sito Jazzfuel

Foto:

Miles Davis di Rob Bogaerts

1 Comment

  1. Mah, curioso che ‘Filles’ venga ritenuto un album minore e meno conosciuto di ‘In a silent way” per esempio. Da noi non mi sembra sia stato così, ma tutto il contrario: qui pesa anche la diffusione discografica e la prospettiva da cui si guarda al jazz nelle varie scene nazionali.E’ certamente un lavoro capitale, e decisamente più ‘strutturato’ di ‘In a silent way’ e ‘Bitches Brew’, in cui il lavoro di editing di Teo Macero comincia a svanire. E’ vero che ‘Filles’ dà la sensazione di trovarsi di fronte ad una sorta di suite unitaria, ma certi suoi brani hanno personalità ed identità ben definita, e si scolpiscono nella memoria dell’ascoltatore. Last but not least, ‘Filles’ è un compiuto successo estetico, che in album successivi difficilmente si ripeterà con tanta organicità e concentrazione. My five cents, come al solito. Milton56

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