CARTOLINE – PERUGIA, OCCASIONI MANCATE E SORPRESE INATTESE

Jonathan Blake, Un batterista “orizzontale”… in tutti i sensi

La matematica del jazz è molto bizzarra: spesso la somma di addendi di gran peso produce un risultato totale inferiore al cumulo dei primi.

E’ forse il caso del quintetto di Jonathan Blake di scena al Morlacchi, che per quanto mi concerne non ha convinto. E sì che sul palco c’era un batterista-leader di grande originalità strumentale e di sicuro mestiere musicale; Dezron Douglas al basso (acustico ed elettrico) e Dayna Stephens (sax tenore ed EWI) sono anch’essi due solide personalità con esperienze ben diversificate; Fabian Almazan è un ennesimo prodotto di quella scuola pianistica cubana che tanto ha dato al jazz degli ultimi decenni (ricambiata con il cinquantennale embargo non solo sui farmaci, ma addirittura sugli strumenti musicali… grottesco). Del giovanissimo vibrafonista Jalen Baker si dirà poi.

Il gruppo presentava “My Life Matters”, una suite di intonazione civile, Blake ha detto di averla concepita sotto lo stimolo dell’esempio di Max Roach, ma con un afflato più universale e rivolto alla promozione della dignità umana al di là di ogni specifica connotazione razziale. Nobile l’intenzione, ma la musica a programma è oggetto di insidioso maneggio nel campo jazzistico: o si ha l’ampiezza di visione e la perizia di manovra orchestrale di Ellington, o in alternativa il rigore e la lucidità militante di Roach & Lincoln, oppure il risultato rischia di non andare molto più in là di una volonterosa esibizione di buoni sentimenti con un accompagnamento non certo epocale.

Sul piano strettamente musicale, la suite di ampio respiro porta con sé l’esigenza di una ampia tavolozza di colori ed una grande varietà di accenti e dinamiche, a maggior ragione quando si può contare solo su di un organico musicale limitato. E forse proprio questo è stato il tallone d’Achille del gruppo di Blake: per gran parte del set Stephens ha impiegato l’EWI, curiosità tecnologica che viene dagli anni ’80 e che in sostanza è un ‘sintetizzatore a fiato’. Al Morlacchi lo strumento è suonato alquanto monocorde e legnoso, ricordando tutte le limitazioni delle elettronichei anni ’80: in ogni caso eravamo molto lontani dalle sottigliezze dinamiche e timbriche che uno strumentista del livello di Stephens è in grado di ricavare da un tradizionale sassofono acustico, tenore o soprano che sia. Istintivamente lo sguardo corre al piano, dove siede un latin depositario di una tradizione dove suono ed espressione sono il centro di tutto: ma anche da Almazan arriva un pianismo stranamente piatto e scabro, sia nel colore che nelle dinamiche, che né nei rari assoli né nel costante accompagnamento controbilancia l’anonimo ordigno elettronico di Stephens. Viene quasi da pensare che il gruppo guadagnerebbe in termini di omogeneità da un netta sterzata verso il suono elettrico, con un bel Fender dal suono liquido e cangiante al posto del piano acustico.

Jalen Baker già alla testa di un suo quartetto con la title track di un suo album di esordio. Ne sentiremo parlare parecchio in futuro, ci scommetto…

Ma ci sono anche momenti più felici: un bell’assolo corposo e concentrato di Douglas al basso acustico (quello elettrico è funzionale in varie situazioni, ma normalmente non molto di più salvo che non sia nelle mani di uno Steve Swallow), una sortita di Blake che ci dà una lezione di come si può costrure con rigore e lucidità un lungo assolo di batteria…. Ma la riscossa arriva soprattutto dalle lamelle del vibrafono di Jalen Baker: il suo stile percussivo ed incisivo e le sue sortite solistiche piene di energia di slancio  fanno regolarmente riprendere quota all’intero gruppo donandogli finalmente dei momenti dinamici e swinganti. Bottom line: ‘rivedibili’, come scrivevano le commissioni di leva decenni fa. In ogni caso non mancheremo di seguire il ‘batterista orizzontale’ Blake in altri contesti (es. il trio di Kris Davis) e soprattutto dedicheremo una paginetta del nostro taccuino a Jalen Baker per futuri aggiornamenti, certamente intriganti.

Delle vere e proprie ‘schegge’ del quintetto di Blake al North Sea Festival, pochi giorni prima della performance perugina. E’ un frammentario documento amatoriale, ma si intuisce un clima in parte diverso. Jalen Baker comunque spicca sempre.

Per un’occasione mancata, ecco un esito al di là delle aspettative. So bene che la figura di Fabrizio Bosso fa inarcare il sopracciglio ad alcuni jazzofili, soprattutto da quando si è conquistato una visibilità anche al di fuori del mondo jazzistico grazie al suo supporto da strumentista a famose star del mondo pop (ma giova ricordare che anche tanti jazzmen degli anni ’60 e ’70 – ed anche di quelli più rigorosi – venivano spesso mobilitati da celebrità della musica leggera per la loro versatilità ed il loro mestiere, due atouts preziosi soprattutto in studio di registrazione). Ma in fondo la circostanza va solo a confermare una cosa, già da tempo evidente: Bosso è uno in grado di fare qualsiasi cosa sia possibile con la tromba, ed anche qualcosa in più.   

A me ricorda il grande Freddie Hubbard: anche lui è stato un trombettista di mezzi pressocchè illimitati, ma mai ostentati in modo muscolare od esibizionistico (come talvolta accade invece nel jazz). Al contrario: le risorse del Bosso ‘che fa paura’ (parola di Enrico Rava, prossimo ai 70 anni di tromba) sono sempre al servizio dell’espressione. Ma mentre a Freddie non pesava certo la penna, Bosso sempre più spesso di recente sceglie di rivisitare pagine e figure della tradizione afroamericana, anche collaterali al jazz in senso stretto (vedi l’album e i molti concerti dedicati a Stevie Wonder). Del resto, in giro ce n’è d’avanzo di originals pretenziosi e piuttosto aridi, che non a caso quasi mai escono dal book personale dell’autore che se li è tagliati addosso su misura. Questa volta tocca a Pino Daniele. Vedo ancora faccine perplesse….. “E che c’entra Daniele?” Ma perché “A me me piace o’ blues” !!

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Fuor di boutade, Pino Daniele è forse stato l’ultima manifestazione di quel filone della ‘negritudine napoletana’ che negli anni ’70 ha dato molti frutti insoliti ed affascinanti: basti pensare agli album di sole percussioni di Toni Esposito, ai neri dei Quartieri Spagnoli di Napoli Centrale, ed addirittura al primo Alan Sorrenti, definito il Tim Buckley italiano prima di perdersi tra le stelle (e peggio).

Torniamo a Bosso: negli anni di formazione in quella fossa dei leoni jazzistica che è New York, il nostro ha maturato anche un’altra qualità, quella di leader dall’occhio infallibile, che non a caso negli ultimi anni ha riunito un quartetto di grande qualità ed armonia. Formazione in cui spicca una perla rara, Julian Oliver Mazzariello al piano, che non a caso accompagna Bosso nella non facile avventura del duo tromba – pianoforte. Ed è proprio al pianismo asciutto e vibrante di Mazzariello che si deve in buona parte il taglio della rilettura data al repertorio di Daniele: niente inclinazioni nostalgiche e sentimentali (che ricorrrono in altre operazioni simili, più furbesche e ruffiane), ma la ricerca del ‘lato in ombra’ di queste musiche e la sottolineatura delle asprezze e tensioni che la percorrono. E mentre Bosso dà fondo a tutti i registri del suo strumento, dal più lirico e sfumato al più aspro e metallico, Mazzariello elabora i temi scomponendoli spesso in caleidoscopiche e taglienti dissonanze. Insomma, alla fine ne esce un Daniele non riconciliato, un segreto compagno di strada di jazzmen sottili e raffinati come Bosso e Mazzariello.

Scontato il caldo successo finale; da notare però che il La alla standing ovation è stato da un Ashley Kahn venuto alla bella Sala Podiani appositamente per ascoltare il duo. Una soddisfazione non da poco, che vale ben più di altri trofei più casalinghi. Keep Tuned. Milton56, vostro Infiltrato Speciale a Perugia

“Je so’ pazzo”. Come si diceva, Mazzariello ci mette un  bel carico sull’ “interesse psichiatrico” della performance 🙂. Vanno da sé le prodezze e le sottigliezze di Bosso

 

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