LIEBMAN – HART – RUDOLPH “Beingness” – Meta Records – Supporti disponibili: CD
“L’essere è la fonte d’ispirazione che spinge il silenzio verso la sua manifestazione sotto forma di forme sonore. Ogni gesto si anima nello spazio infinito tra il pensiero e la consapevolezza del non-pensiero. La fluidità delle proiezioni sonore spontanee riflette l’essenza della natura, che è il cambiamento.” (Adam Rudolph)
Primavera del 2023, lo Stone di New York è un’associazione senza fini di lucro diretta da più di vent’anni da John Zorn che ha ideato un locale assai particolare, un vero e proprio santuario del jazz d’avanguardia che nel 2018 è stato costretto a traslocare dalla storica, poetica e scalcinata sede nel Greenwich Village per trovare entusiastica accoglienza a qualche isolato di distanza, presso il “Glass Box Theatre” della New School University.

Il bagno, situato dietro l’area in cui si trovano gli artisti, non era accessibile durante i concerti…

Un cambio di sede ma non di formula, è certamente svanita l’aria beatnik che lo contraddistingueva, il nuovo Stone si trova in uno spazio nuovo e splendente, con finestre che si affacciano sulla strada, il pavimento è nero come prima, ma ci sono nuove sedie confortevoli e non più trappole pieghevoli, una grande hall, nuovi bagni, murales di Sol LeWitt e Kara Walker a ingentilirlo, resta inteso che anche adesso non c’è un bar, non si possono fare prenotazioni online, si arriva, si pagano 20 euro direttamente ai musicisti e ci si siede nei posti disponibili, praticamente a contatto con gli artisti stessi. Se è tutto pieno si prega di ritornare più tardi, al secondo set, oppure il giorno dopo, visto che le residenze degli artisti durano solitamente una settimana. Dopo il cambio di sede Zorn ha infatti tenuto a rassicurare tutti: “The Stone è e sarà sempre una casa sicura per i non conformisti, gli emarginati e i visionari del mondo musicale e si impegna a presentare la loro musica d’avanguardia esattamente come la immaginano, senza compromessi.”
Tornando a questo “Beingness” ecco che allo Stone sono dunque in programma alcune date affidate ad un trio che vede come nome di punta un conclamato maestro del jazz più avanzato, Dave Liebman, sassofonista classe ’46 con Laurea in storia e che a sua volta ha fatto la storia del jazz con una delle avventure più fascinose, un trio a combustione spontanea con un batterista a supporto e con l’alchemico Adam Rudolph, ben noto compositore e performer totale che aggiunge elettronica, piano, percussioni etniche e una certa visione d’insieme.
In verità il drummer convocato avrebbe dovuto essere Tyshawn Sorey, che suona spesso con Liebaman in duo, ma all’ultimo minuto Sorey non era più disponibile, così che Liebman ha convocato per queste gig l’amico Billy Hart, trovando l’entusiasmo di Rudolph per questa variazione in corso d’opera che gli ha messo al fianco un altro gigante del jazz, perfetto per una situazione creativa che richiede soprattutto mente aperta, ascolto reciproco e voglia di fluttuare in una dimensione musicale libera e indefinita, in cui il magistero tecnico venga lasciato libero di esprimersi senza compromessi, come il locale e il suo pubblico desiderano.

Il disco, nel caso ve lo stiate chiedendo, non è di quelli che si fischiettano sotto la doccia. Esige attenzione e non delude le attese, ma non si tratta di un ascolto cerebrale, anzi i tre tengono alta la tensione senza cadere in certi clichè che possiamo trovare in questo tipo di lavori, suscitano emozioni e sollecitano ricordi, scaturiscono musica istantanea su slabbrati canovacci, alla ricerca più della verità che di un climax esplosivo.
Le nove tracce che compongono quest’opera, con titoli che ricordano quelli del tardo Trane o dell’AAOC, fanno pensare a sofferte meditazioni d’esoterismo sonoro e invece risultano, soprattutto dal punto di vista ritmico, un puro godimento. Billy Hart in particolare sciorina tutta la sua classe in lunghi e sofisticati assoli, gli interventi di Liebman conferiscono un’urgenza che si fa ora urlo, ora preghiera, brandelli melodici che s’infrangono su un fitto tappeto, evocato da Rudolph con qualche sorta d’incantesimo esoterico in cui ci siamo industriati d’intravedere deità africane, evocate tra sermoni rabbinici e squarci di luce, nella damascata notte newyorkese dello Stone.
