MILTON’S LIST 2025

Anche quest’anno è giunto il momento del logoro e stanco rito delle liste di fine anno, chissà quante ne avrete già consultate e cosa ne avrete cavato. Sappiamo che per voi possono rappresentare un orientamento di una qualche utilità, e quindi eccomi qui anch’io, sia pur stancamente, con la mia manciata di album: “in puro spirito di servizio”, come dicevano i democristiani di una volta.

Qualche nuovo lettore potrà chiedersi il perché di questo scetticismo e stanchezza: ebbene ne approfitto per fare qualche considerazione preliminare, che vale anche come ‘istruzioni per l’uso’ della mia lista.

E’ pur vero che si grida al capolavoro solo dopo anni (e spesso anche decenni) dalla sua pubblicazione, ma va detto che da qualche tempo si stenta a vedere in una debordante produzione discografica qualcosa che si stagli nettamente sul panorama circostante e che sia destinato a durare conservando quella freschezza e fascino che hanno ancor oggi certi album usciti decenni fa. A mio avviso questo non  dipende tanto dal valore dei musicisti ora sulla scena, quanto dal modo in cui si concepiscono e realizzano i dischi oggi: a questo punto dovrei citare in blocco l’Impolitico de ‘Il Campionario’.

Da album iperprodotti, ecclettici, affollati di ospiti estemporanei, con formazioni caleidoscopicamente variabili, concepiti più come oggetti promozionali e ‘demo’ della tourneè a venire non ci si può aspettare l’essenzialità e la concentrazione di certi lavori del passato, a cui i musicisti consegnavano il distillato di una lunga pratica dal vivo con formazione stabili e minuziosamente messe a punto. E questo per tacer del contributo di produzioni attente e capaci di orientamento nei confronti degli artisti, ora praticamente scomparse. Sorvoliamo poi sulla necessità di sgomitare nella galassia dello streaming con manierismi superficiali, che paradossalmente finiscono invece per portare ad un generale livellamento.

Uno dei più bei palchi d’Italia: Roma, Summertime. Speriamo che le talpe non ce lo devastino irrimediabilmente

Come i più assidui di voi avranno capito, le mie maggiori emozioni di ascoltatore le colleziono in platea davanti ad un palco, laddove ho visto succedere delle cose che solo parzialmente trovano poi un’eco nelle registrazioni che sempre più spesso le anticipano, all’opposto di quanto avveniva in passato. Quindi molti dei titoli che seguono rappresentano un modo di condividere con voi esperienze vissute dal vivo con le formazioni che le hanno firmate. Ultima avvertenza: l’ordine delle citazioni è del tutto estemporaneo, mi è estranea la mentalità della ‘classifica’ che presuppone una visione ‘agonistica’ di questa musica, che già in passato era molto inadeguata, ma ora risulta del tutto inapplicabile ad una scena caratterizzata dal’assenza di linee evolutive di fondo ben distinguibili e dalla pluralità di filoni diversi che più spesso si divaricano più che incrociarsi.

Ambrose Akinmusire – Honey from a Winter Stone

La performance dello scorso luglio a Perugia è stata per me il ‘concerto dell’anno’. Mi conforta il fatto di non esser il solo a pensarlo. Ecco, in questo album complesso ed accuratamente concepito si respira l’atmosfera dell’ ‘opera’ compiuta e ben meditata di cui sento altrove la mancanza. Un compatto e sperimentato combo jazz (occhio al fedele Sam Harris al piano ed alle tastiere) viene condotto dal sobrio e meditativo Akinmusire a dialogare con un quartetto d’archi, combinazione che quasi mai ha fornito risultati convincenti nel mondo del jazz. Ma il Mivos Quartet è formazione ben lontana da quelle che siamo abituati a sentire in ambito accademico europeo, ha una prontezza ed uno slancio possibili solo dall’altra parte dell’oceano, in una parola ha swing ed è vero un ‘improvvisatore collettivo’ alla pari del quartetto di jazzmen. Nell’attuale inflazione di spoken word e di innesti in laboratorio con l’hip hop ed il rap, il contributo di Kookaj brilla per maturità ed evoluta musicalità e contribuisce non poco al forte drive ed all’intensità di tutta la complessa macchina musicale ideata da Akinmusire, che fa un passo indietro come trombettista per trasferire il suo lirismo concentrato ed teso su di una scala praticamente orchestrale. Richiede un ascolto immersivo che sarà ampiamente ricompensato

‘Bloomed’ è solo il brano è più compatto di questa vasta suite; purtroppo non c’è Kookaj

James Brandon Lewis Quartet – Abstraction is deliverance

Brandon Lewis è un musicista accomunato ad Akinmusire da un’integrità a prova di proiettile, ma al contrario dell’appartato e talvolta ritirato Ambrose, è molto presente sulle scene percorrendo strade diverse con differenti formazioni. Il quartetto di ‘Abstraction’ è forse quello in cui meglio si esprime la sua poetica, oltre ad esser un esempio di compattezza ed integrazione che ha pochissimi paragoni sull’erratica scena attuale. Brad Jones al basso e Chad Taylor alla batteria forniscono i ritmi più tersi e creativi che sia dato sentire oggi. Aruan Ortiz è un musicista di grande personalità che riesce però ad affiancare una seconda voce asciutta ed incisiva che è il perfetto controcanto al sax estatico ed epico di Brandon Lewis. Intendiamoci, niente coltranismi di maniera e fuori tempo massimo, qui siamo su un’altra linea evolutiva (spesso si intravede in filigrana l’improvvisazione tematica di Rollins). Il quartetto ed il leader in particolare hanno assimilato in profondità quelle ‘voci della strada’ che altri esibiscono molto più estrinsecamente per guadagnare titoli di contemporaneità. Qui invece siamo contemporanei veramente.

Il disastroso motore di YouTube purtroppo riporta solo questa chilometrica clip che comprende l’intero album in traccia unica. “Che male c’è?” direte voi… ci sono buone probabilità che l’ascolto sia interrotto di punto in bianco da qualche spot pubblicitario… no comment! I titolari dei canali che caricano in questa forma dovrebbero riflettere su questi rischi….   

Paul Cornish – You’re exaggerating!

Era dai Blue Note degli anni ’60 che non si vedevano titoli con il punto esclamativo. Che ci sta eccome davanti ad un sostanziale esordio di un pianista alla soglia della trentina, che nel jazz di ogni tempo coincide con l’ingresso nella maturità ed un bel tratto di strada già percorsa sotto i riflettori. Ringraziamo Joshua Redman per avercelo fatto conoscere ed averlo messo in gran evidenza nel suo attuale quartetto. Alla freschezza e densità di un’opera prima che condensa già una profonda maturazione avvenuta nell’ombra, si aggiunge la spiccata originalità di questo texano che molto deve aver ascoltato ed assimilato, sviluppando uno stile personale e di grande originalità, svincolato dalle più ovvie tendenze ed influenze del pianismo jazz di oggi. Con una sola eccezione, da lui stesso dichiarata con evidente riconoscenza:

‘Queen Geri’ è Geri Allen, ricordata come maestra da molti pianisti d’oggi quanto abbastanza dimenticata dalle nostre parti

Franco D’Andrea trio – Live!

Una delle difficoltà di concepire queste liste con precisione notarile è capire quando ‘escono’ oggi i dischi. Nello scombinato e disastrato mondo discografico di oggi non è così facile capirlo: preview in streaming, Lp in parziale anteprima per il Record Store Day, formati digitali che precedono quelli fisici e via confondendo di questo passo. Questo che è (o sarà… ) un doppio cd è già presente su piattaforme di streaming da qualche giorno, quindi avete modo di farvene un’idea di prima mano. Già sento qualche sospiro…. “Ma ce n’hai già parlato del trio con Roberto Gatto e Gabriele Evangelista, ed anche del loro disco in studio, “Something Blues and More”…”. Già, ma questa è proprio l’occasione perfetta per metter a paragone un gran bell’album di studio con un concerto live che ha visibilmente tolto dalle spalle di D’Andrea alcuni degli 86 anni che si porta dietro e senz’altro i brutti momenti di due estati fa. Nella calda notte di Ferrara del 21 dicembre 2024 c’ero anch’io, e subito si è percepita l’atmosfera di un’occasione speciale, in cui i musicisti hanno sentito nettamente la spinta di un pubblico entusiasta e partecipe. Di qui a chiedere a Francesco Bettini (direttore artistico di Jazz Club Ferrara) la registrazione e portarla a Parco della Musica Records mancava solo un passo, fatto d’un balzo da un D’Andrea visibilmente felice dell’esito della serata. Oltre a portarvi a casa uno splendido esempio di intesa telepatica tra tre generazioni (il pioniere D’Andrea, uno dei miei sempre avventurosi ‘jazzisti selvaggi’, Gatto, ed un’autentico fuoriclasse dell’ultima generazione, Evangelista), questi quasi 90 minuti (!!!) di musica  hanno anche una valenza diversa, direi quasi ‘didattica’.  

Brevi cenni sulla natura dell’Universo, 100 pagine comprese illustrazioni… questa doveva esser la copia di Franti…

Si sa, il jazzofilo medio cresce nell’ascolto della contemporaneità, salvo capire dopo che il jazz è storia, principalmente la sua storia, e solo costruendo su questa si possono raggiuingere risultati duraturi ed evolutivi. E qui abbiamo un modernissimo Virgilio che ci guida in una risalita a ritroso nell’intricata selva di 100 anni di jazz: aggiungiamo che quasi tutti questi classici rappresentano capitoli della sua autobiografia musicale che ormai si sviluppa per oltre 60 anni, rimescoliamo il tutto con la usuale lucidità e un rinnovato feeling del più bel trio in circolazione dalle nostre parti, ed abbiamo un affascinante sussidiario come quelli che da bambini ci portavano dalle piramidi egizie alla fissione dell’atomo in cento pagine, con tante belle figure che ancora ci portiamo dentro a distanza di decenni. Assolutamente imprescindibile, sia per l’intelligenza che per la bellezza.  

una prova di ‘esprit de finesse’ che avrebbe stupito anche Duke e Billy. Ma ce ne è anche per gli orfani di Trane (“A Love Supreme” con memorabile intro di Evangelista) e persino per quelli dei Fab Four di Liverpool (“Norwegian Wood”). Il ribollente pubblico della serata ferrarese irrompe nonostante la sordina in fase di mixaggio   

Siamo nei pressi della ‘bottom line’ della listerella, ma restano due cose in sospeso.

Primo: per non passare per insensibile alle ‘tendenze’ del momento, due menzioni speciali. “Thereupon” dei Fieldwork, resurrezione di un trio che non faceva aver sue notizie da oltre 15 anni. Musica di insolita atmosfera, in cui si sente molto la mano del mio diletto Vijay Iyer, che ben inquadra l’ingegnosità di Steve Lehman evitandogli intellettualismi un po’ artificiosi del suo passato. E poi mobilita il suo creativo batterista Tyshawn Sorey.  Il qual Sorey ricompare anche in “Strange Heavens” a nome di Linda May Han Ho: anche qui due terzi del trio di Vijay sono in azione (significativa la cosa) a fianco del già citato Ambrose Akinmusire, qui in tutta evidenza con il suo solismo sfumato ed intenso. Della Han Ho già pensavo tutto il bene possibile come appassionata ed arrembante bassista, ma qui emerge anche una leader promettente e capace di guidare sidemen di grande statura.

La stele trilingue che consentì di svelare la scrittura geroglifica egiziana

Secondo e veramente ultimo. Le riedizioni storiche, che ormai occcupano quasi metà della produzione corrente. E qui il criterio è solo uno: la meraviglia di fronte ad una stele di Rosetta riemersa dalle sabbie. Messa così, la scelta è obbligata: uno qualsiasi dei dischi della Strata East Records che Mack Avenue ha fatto rivivere dopo un’oblio di quasi cinquant’anni. Un’avventura artistica ancora emozionante ed un modello di professionale autogestione che andrebbe attentamente ristudiato in questi tempi cupi e minacciosi.

Cliccate e poi ancora cliccate, queste clips vanno scavate con non poca pazienza e fatica. Milton56

Difficile scegliere tra le tante gemme dello scrigno Strata: così ho chiuso gli occhi e puntato il dito. La fortuna non è poi così cieca: Stanley Cowell con Billy Harper, Reggie Workman ed un allora imberbe Billy Hart… pensate a cosa ci siamo persi per 50 anni….

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