Una pattuglia di esploratori, veterani e non….
A molti il violoncello potrà sembrare uno strumento alieno rispetto al mondo della musica afroamericana ed indissolubilmente legato alla tradizione cameristica europea. Ma a sfogliare le pagine sempre più folte degli annali della nostra musica si scopre che così non è. Anzi, curiosamente si nota che il cello fa capolino nelle combo jazzistiche proprio in cruciali momenti che annunziano grandi cambiamenti. Senza alcuna pretesa di esaustività, vale ricordare che il violoncello è stato il secondo strumento di molti bassisti che hanno lasciato un segno nella storia del loro strumento come l’Oscar Pettiford compagno di strada dei boppers della prima ondata od il Ron Carter che lo sfoggia in una splendida sessione idealmente contesa tra Mal Waldron ed Eric Dolphy (“The Quest”, Prestige 1961, contiene il magico “Fire Waltz”).
Un valzer che brucia ancora…..
E’ stata anche una voce caratteristica delle innovative formazioni di Chico Hamilton, con Abdul Wadud ha attraversato anche il free più infuocato. Nessuno stupore quindi quando a metà degli anni ’90 un giovane Dave Douglas si impose all’attenzione con il bel ‘Five’ (un disco Soul Note, en passant) in cui era accompagnato da una piccola formazione di archi in cui si notava la personale voce di un violoncellista: era Erik Fredlander.
Un exploit ancor oggi originale…
Al contrario di altre biografie jazzistiche, la sua non conosce precoci ed inesorabili vocazioni creative, né un percorso lineare e routinario: giovanili e mai dismesse frequentazioni con il mondo del rock più avanzato si alternano con una costante milizia negli ambienti del camerismo contemporaneo, ma alla fine si fa strada anche la fascinazione del jazz, abbordato però per vie traverse (il milieu Zorn/Tzadik, Myra Melford) sino ad approdare come si è detto agli originali gruppi di Douglas ed alla leadership in proprio.
Il Jazz Club Ferrara e Crossroads ci hanno proposto al Torrione l’attuale quartetto di Friedlander, che a dispetto di un organico veramente impressionante (Uri Caine al piano, Mark Helias al basso e Ches Smith alla batteria) non ha avuto l’attenzione che meritava, forse anche a causa della ristretta diffusione del loro ultimo disco, “Artemisia” (ah, le autoproduzioni….. mah!). Comunque la tournee europea con alcune (poche) date italiane ha in parte rimediato, proponendo dal vivo prevalentemente i materiali del disco.
Il primo colpo d’occhio sul palco rivelava una disposizione del quartetto forse non occasionale e dettata da contingenze pratiche: all’estrema destra il violoncello di Friedlander ed il basso di Helias, al centro la batteria di Smith ed all’estrema sinistra il piano di Caine. Il concerto si è aperto con ‘First Step’, una nuova composizione in cui Friedlander ha esordito con un assolo all’archetto di sapore classiccheggiante e caratterizzato da una cavata potente e carica di pathos: registro poi rapidamente aggiustato dall’ingresso del resto del gruppo, cui il drumming secco e denso del ‘giovane’ Ches Smith dona una notevole solidità ed impatto. A sottolineare ulteriormente questi tratti della band si aggiungono gli interventi impetuosi e percussivi di Caine al piano, con microclusters che punteggiano talvolta dei riffs volutamente macchinali.
Un violoncello avventuroso
Il brillante ed irruente drive di Caine è forse l’elemento principale che fa discostare l’atmosfera di questo concerto da quella del disco da cui discende: è sembrato anche di cogliere una maggior propensione di Friedlander all’utilizzo dell’archetto, peraltro al servizio di un solismo che è sembrato più audace e dinamico di quello ascoltato in ‘Artemisia’, con occasionali suggestioni orientaleggianti che forse vengono dalle sue passate esperienze. Il pizzicato del cello ritorna però quando Friedlander intreccia dei serrati dialoghi, quasi dei duelli, con il basso di Helias, con cui sembra costruire a momenti una ‘sezione’ contrapposta alla potente energia percussiva della batteria di Ches Smith e del piano di Caine.
Ma lo spirito d’avventura che caratterizza la musica del gruppo non impedisce momenti di brio gioioso, come quello che pervade un brano dedicato all’illustre ‘collega’ Oscar Pettiford. Del resto la musica di Friedlander e dei suoi non perde mai freschezza e vivacità nemmeno nei molti passaggi audaci e nelle frequenti progressioni incalzanti innescate da Caine. Nonostante l’esuberanza e la personalità di quest’ultimo, le redini del gruppo rimangono sempre nella mano ferma di Friedlander, un leader che non esita a dare sul palco un secco stop ad un attacco che non lo soddisfa, facendolo ripetere senza tanti complimenti ai consumati e sperimentati veterani che lo affiancano, Caine in testa (sic!).
Il set procede attraverso il fluire di brani molto stimolanti e comunicativi, con passaggi di assieme molto ben congegnati, valga per tutti il dinoccolato ed elegante ‘Seven Heartbreaks’ che si può ascoltare anche sul CD. Scontata la risposta calda del pubblico del Torrione, che ottiene come bis un bel blues in cui Friedlander intreccia efficacemente il suo pizzicato con il basso di Helias che lo echeggia da vicino. Una bella lezione su come si possa fare musica innovativa e di ricerca senza pagare prezzi in termini di comunicativa, e per di più con un organico senz’altro alquanto originale ed insolito. Milton56
Un sorso di ipnotico assenzio da “Artemisia”