Scusate, scrivo di getto queste righe, può darsi che mi scappi qualche approssimazione od inesattezza, ma ci sono momenti in cui l’urgenza conta più dell’erudizione.
Oggi mi sono trovato tra le mani un disco speciale, molto speciale. E’ quello che vedete nell’immagine di testa.
E’ come un messaggio in bottiglia, che ci giunge dal lontano 1994. A mandarcelo è un vero naufrago della vita, Luca Flores. Un’infanzia trascorsa in Africa, in Mozambico, poi in Portogallo, per poi finalmente approdare a Firenze dove si diploma con lode in pianoforte ed organo nel 1981: non è che il coronamento di una passione cominciata già a 5 anni in Africa, continente i cui paesaggi sonori gli lasceranno un rimpianto indelebile (tenterà invano di incidere un disco con Miriam Makeba…).
Ma già da anni si è tuffato a capofitto nel ribollente mondo jazzistico italiano di allora, collezionando una serie lunghissima di collaborazioni stabili (molto significative quelle con Tiziana Ghiglioni, Massimo Urbani, Chet Baker); quelle occasionali non si contano, soprattutto con i molti jazzmen americani che allora facevano sistematicamente tappa in Italia. Alla fine costituisce anche un suo trio.
E’ tra i primi insegnanti ai noti seminari di Siena, nel frattempo continua a perfezionarsi, tra gli altri con Franco D’Andrea (ma quanto dobbiamo in Italia a quest’uomo? E se ne parla solo una volta l’anno….).
Nonostante l’affollamento e la qualità della scena di allora, emerge subito e di prepotenza come uno dei talenti più originali del nostro jazz.
Purtroppo nel 1987 il buio comincia a calare sulla sua vita, diciamo che ha percorso una strada tragicamente simile a quella di Bud Powell, elettrochoc compreso…. Ma quantomeno Powell non patì una grave incidente alla mano e la perdita dell’udito da un orecchio come successe a Luca.
Nonostante il progressivo sprofondare in un vero abisso di sofferenza, Flores riuscì a produrre sino quasi all’ultimo, licenziando diversi dischi sino al 1993 ed addirittura uno nel 1995.
Anno in cui decise che il cielo gli pesava troppo sulla testa e chiuse i conti con la vita. Negli anni successivi, pur tra un montante e futile cicaleccio, qualcuno si è sempre ricordato di lui con omaggi discreti, ma sinceri: musicisti innanzitutto, ma su di lui è stato scritto anche un libro (“Il disco del Mondo” di Walter Veltroni), da cui nel 2007 è stato ricavato anche un film (“Piano Solo” di Riccardo Milani, con Kim Rossi Stuart).
Ora il silenzio calato su di lui è stato rotto da una piccola vicenda rocambolesca: da un’intervista di Luigi Bozzolan finalizzata alla stesura di un libro parte tutta una serie di vicende che portano al Planet Studio di Firenze, dove Flores aveva registrato nel 1994 una serie di tracce, poi non pubblicate probabilmente per motivi di spazio. Prima vengono ritrovate delle musicassette in cattive condizioni ed incomplete (lo studio aveva attraversato un brutto periodo), poi da una scatola custodita da una persona cara al musicista emergono registrazioni DAT integrali e con un buon suono. Dopo altre traversie dovute all’osbolescenza dell’hardware DAT (meditate sulle vanità delle cose tecnologiche, fautori della musica liquida…), finalmente e con molto lavoro viene assemblato un master filtrato da disturbi e con un suono adeguato alla pubblicazione. Si ritrovano anche degli appunti del pianista, che indicano che questa musica nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere una sorta di ‘film’ della sua vita, rievocando momenti cruciali che lo hanno segnato umanamente ed artisticamente: in sostanza, una specie di lascito a futura memoria. In alcuni brani è evidente una tensione ed un’emozione che lasciano molto pensare, soprattutto alla luce di quel che sarebbe seguito di lì a poco.
Il jazz italiano comincia ad avere sulle spalle abbastanza passato da ingoiare e nascondere storie come questa. Per fortuna anche da noi c’è chi ostinatamente scava inseguendo tracce sottili e quasi cancellate, e chi ha il coraggio di riproporcele con la grande cura editoriale ed estetica che la piccola e battagliera AUAND ha messo anche in questo doppio CD, che vanta anche una parte iconografica di gran pregio e significato sia nell’album, che nel booklet in esso inserito. Sta anche a noi premiare questa tenacia e questa fedeltà. Milton56