DAN WEISS TRIO PLUS 1
Utica Box
Sunnyside / IRD
Il camaleontico Dan Weiss, batterista di punta del jazz di ricerca statunitense, è un tipino piuttosto impegnato e sta portando avanti, mentre scriviamo, un’interessante serie di progetti, tra i quali spicca “Starebaby” (con Craig Taborn, Matt Mitchell, Ben Monder, Trevor Dunn) , ascoltato anche in numerose rassegne italiane lo scorso anno, prosaicamente descrivibile come una sorta di heavy-jazz con violente improvvisazioni a volume assordante, ma, solo per restare in ambito jazzistico, si può trovare il suo drumming anche nei gruppi di Noah Preminger, Linda Oh, Miguel Zenon, David Binney, Rudresh Mahanthappa e ne dimentichiamo sicuramente altri, ma era giusto per dare un’idea della sua agenda.
Questo “Utica Box”, uscito per i tipi di Sunnyside in un bel digipack tutto virato all’arancione, esplora un lato affatto diverso della personalità musicale di questo drummer che si conferma florido compositore, sette nuovi brani originali sono infatti qui proposti da un trio squisitamente pianistico (Jacob Sacks) retto, oltre che dai suoi membranofoni, da ben due contrabbassi (Eivind Opsvik e Thomas Morgan), spesso alle prese con l’archetto.
Si va dall’ellittico brano eponimo posto in apertura, 17 minuti suadenti e dall’incedere ipnotico, al breve “Jamerson” che lo segue, una sorta di ballad lattiginosa che sversa direttamente in “Rock and Heat”, due minuti di assoli incrociati di basso prima di un’energico sviluppo lineare del tema, per poi perdersi in “Orange”, colore dominante del disco e brano particolarmente libero, in cui dal caleidoscopio musicale di Weiss escono suggestioni, accenni, ritrosie e dolcezze, con un pianoforte che itera la stessa frase ad libitum, muovendosi circospetto in un contesto quasi spettrale.
Sebbene questa sia la prima incisione con l’assetto del doppio bassista i quattro si conoscono e collaborano da molti anni, tanto che paiono trovarsi ad occhi chiusi, sia in “Please don’t leave” che riporta echi afrocubani in filigrana, che nella poderosa ed urticante “Bonham” che chiude l’album, altro brano lungo quasi 16 minuti, dedicato, ebbene si!, al batterista dei Led Zeppellin, amatissimo dal leader che lo ha studiato per anni e che qui lo celebra in un’obliqua e potente suite dai contorni indefiniti.
Si esce leggermente frastornati, dall’ascolto complessivo di questo Utica Box, il cui titolo criptico si riferisce ad un barbaro trattamento psichiatrico, ma il sentiero percorso da Weiss mantiene sempre fascino e personalità, in fondo ci si perde al massimo per qualche istante ma poi si ritrova rinfrancati una via, per quanto erta. Restando in ambito metaforico direi che si tratta di classico disco che va lasciato depositare e che mostra le proprie stratificazioni dopo un certo numero di ascolti, possibilmente in contesti disparati (in viaggio, in cuffia, mentre disossate amorevolmente un coniglio, ecc.).