Giunge la notizia della scomparsa di McCoy Tyner, aveva 81 anni. Nessun dettaglio ulteriore, ma io non sono uno di quelli che ravanano nei necrologi alla ricerca inconscia di argomenti di sollievo personale.
Non appartengo nemmeno alla categoria di quelli che in circostanze simili indossano la maschera della compunzione ecumenica ed assolutoria ‘urbi et orbi’.
Siate avvertiti: questa è una memoria di parte, schierata, senza mezzi termini polemica. E’ un ‘ricorda con rabbia’, si intitolava così una bella piece inglese degli anni ’50: niente Swinging London, si stavano ancora sgombrando le macerie, soprattutto quelle ‘di dentro’.
Non mi appartiene nemmeno la parafrasi di Wikipedia et similia, benemerite risorse cui ognuno può accedere da sé, volendo s’intende. Quello che vorrei trasmettervi è il senso che la figura e la musica di Tyner hanno avuto per me e per molti della mia generazione. E’ necessario ed urgente, perché ormai da molto tempo dalla figura di McCoy erano stati di fatto distolti i riflettori, puntati a profusione altrove.
Per me Tyner non era un ‘grande pianista’, qualcuno che poteva esser messo in scala od a paragone con altri. Tyner e Bill Evans rappresentano invece IL piano jazz contemporaneo (ho detto ‘contemporaneo’, si noti bene, non ‘moderno’), quello da cui seguono e su cui si misurano tanti altri, originali, creativi, sofisticati, in sintonia con il loro tempo, ma che senza quei due non sarebbero puramente e semplicemente esistiti. In tutti i pianisti che oggi amo – non sono molti – ho sempre percepito d’istinto almeno una scheggia, un’ombra di McCoy.
Le ‘ali’ che facevano volare il quartetto di Coltrane
In tanti ‘coccodrilli’ che vedrete scongelare per l’occasione si parlerà del ‘pianista DI Coltrane’. Primo, grave travisamento. Tyner è stato pianista CON Coltrane. E lo è stato sin da quando Trane abitava a Philadelphia dalla madre di lui sedicenne, e già musicista professionista. Un professionista che faceva pratica sul suo piano piazzato nel negozio di estetica della madre: niente Juilliard o similia. Ma studiare in vetrina può anche avere i suoi vantaggi, se il fratello di un tuo vicino di casa si ferma ad ascoltarti ed alla fine entra in negozio per conoscerti: il passante era Bud Powell, per la cronaca. “Quello che non suoni a volte è più importante di quello che suoni”, ha detto tempo fa Tyner. E questo spiega la magica simbiosi che lo unì a Trane dal 1960 al 1965: la densità rovente della musica del sassofonista esigeva spazio, aria, apertura, che veniva dai magici, dinamici accordi di accompagnamento di Tyner che improvvisamente si schiudevano in lunghi, estatici voli solistici che per molti di noi erano l’indispensabile ed atteso contrappeso dialettico che circoscriveva e definiva l’inclinazione parossistica di Trane. Quando, toccati gli apici di ‘A Love Supreme’, Tyner passò la mano perché “la musica era diventata troppo fragorosa e ingombrante, al punto che non sentivo più il piano”, Trane si inoltrò in sconosciuti territori estremi e senza ritorno, una strada lungo la quale molti di noi lo abbandonarono: e non sono pochi a pensare tutt’oggi che quella via percorsa con la sola compagnia di comprimari potesse trovare un qualche compimento solo nel silenzio imposto dalla morte sopravvenuta nel 1967.
Ma qui riprende il cammino del Tyner leader e creatore in proprio, quello che da molto, troppo tempo è stato oscurato anche dall’infelice, frammentaria e del tutto carente riproposizione della sua produzione discografica, pure affidata in gran parte a grandi etichette ancora vitali come Impulse, Blue Note: altre cose notevolissime ed unanimemente lodate purtroppo si trovano in cataloghi – ad esempio quello Milestone – che hanno subito lo stesso singolare oscuramento ed oblio in un’epoca dove è stato ristampato di tutto, ivi compresa molta trascurabile plastichetta resuscitata da mode passeggere.
1970, “Extensions”: un’incipit sognante che non si dimentica facilmente. Con Tyner Wayne Shorter e Gary Bartz ai saxes, Ron Carter al basso ed Elvin Jones alla batteria. L’arpa è di Alice Coltrane
Il lavoro in sala d’incisione fu essenziale per il Tyner naufrago del quartetto coltraniano: per molti anni dopo il distacco fu l’unica valvola di sfogo per la sua creatività, a fronte di tempi molto avari di ingaggi dal vivo come furono gli ultimi ’60 ed i primi ’70 anche per figure ammirate e di prima grandezza come Tyner (era arrivato a pensare di prender una licenza da taxista per sbarcare il lunario…). Nonostante l’assenza di una ‘working band’, il nostro ricava da organici di studio sempre mutevoli ed in perenne evoluzione degli album che sono tutt’oggi ricordati anche dalla critica più puntuta: ne vedete diversi che illustrano questo pezzo. Salvo qualche eccezione, però, ben difficilmente li troverete su scaffali fisici o virtuali, se non in qualche sbiadita fotocopia piratata: e questo in barba ai nomi di prima grandezza che affiancano Tyner, da Joe Henderson al vecchio compagno Elvin Jones, Alphonse Mouzon ed Eric Gravatt dei primi Weather Report, Gary Bartz e Wayne Shorter.
Tender Moments, una perla dimenticata in cui la passione del Tyner pianista viene incastonata in una sofisticata cornice orchestrale dal Tyner leader di big band (peccato non averlo sentito più spesso in questa veste…)
Ma “c’è un giudice a Berlino”, anzi a Montreux (vedi brano sotto): agli inizi dei ’70 Tyner riesce a formare delle band stabili ed a esibirsi dal vivo. Spesso in questi gruppi militano musicisti che poi non hanno avuto una carriera di primo piano, ma al fianco di McCoy vengono trasfigurati e contagiati dalla sua travolgente energia vitale, soprattutto nelle occasioni dal vivo. Ma intendiamoci: la vitalità, l’inestinguibile cantabiiità di fondo della musica di Tyner non si traducono in semplificazione e schematicità: tutt’altro, il suo pianismo era costellato di raffinati ricami, di studiate coloriture.
Enlightment, Montreux 1973, quando il ricco Festival svizzero ancora laureava i maestri riconosciuti del jazz, anche del più innovativo. Per fortuna anche questo l’ho rimediato usato….
Ci sono artisti, anche rilevanti, che sembrano fatti apposta per esser piazzati come personaggi-prodotto sul mercato dello show business: al suo interno c’è anche un segmento ‘impegnato’, dove spesso abbiamo visto centellinare ad un tanto al grammo pillole di stucchevole ‘spiritualità’, amorevolmente promosse da efficientissimi uffici stampa. Un’intramontabile specialità americana, purtroppo. Invece dal ‘black muslim’ Tyner non abbiamo visto nulla di tutto questo: la sua conversione a 18 anni è stata probabilmente una silenziosa scelta di ascetica autodisciplina, con motivazioni simili a quelle che trasformarono il piccolo delinquente di strada Little in Malcom X (se volete veramente capire qualcosa del milieu che ha generato il jazz, soprattutto quello del secondo dopoguerra, non potete non leggere la celebre ‘Autobiografia’ scritta a quattro mani con Alex Haley, un romanzo vero…).
Tollerato quando veniva tacciato di ‘razzismo alla rovescia’, nel 1964 incomincia a parlare di tanti ghetti, in cui si è ‘neri’ anche con la pelle bianca, gialla o bruna. Arriva allora un ‘esaltato isolato’… sempre al momento ed al posto giusti , come per John Kennedy, come per Martin Luther King, come per Bob Kennedy
Qualcuno dirà: ma ogni musica ha il suo tempo, in fondo ciascuna è il sismografo più sensibile della propria epoca e ce ne riporta lo spirito ed il senso. Beh, indubbiamente McCoy è una specie di entità aliena nel nostro presente, un set virtuale ed iperrealistico alla ‘Truman Show’, un mondo immobile e chiuso forse meglio rappresentato da un certo minimalismo oscillante tra il catatonico ed il macchinale. Recentemente ho sentito discorrere di un filone della musica elettronica dove i musicisti si campionano, facendo elaborare le proprie tracce a software capaci di autoapprendimento: poi si mixa il tutto con il risultato che l’umano che suona non riesce più a distinguere se sta dialogando con sè stesso registrato o con un androide musicale che si evolve autonomamente. Fantastico, ‘Blade Runner’ ha partorito la sua musica (con tutti i riguardi per Vangelis che compose la soundtrack del film). La musica di Tyner costantemente ariosa e tesa è invece sempre protesa verso un ‘tempo altro’, un tempo a venire: e molta della sua musica migliore è nata mentre i ghetti di Newark e Watts bruciavano, con la Guardia Nazionale per le strade.
Newark 1967…. prima Watts 1965, poi Los Angeles 1992, poi Ferguson 2014, poi…..
1967, “Search for Peace’, la raffinata intensità di McCoy
E soprattutto, come si è già accennato, è una musica di persone, una musica che si fa insieme, una musica che tende sempre e comunque alla ‘democrazia perfetta’ di cui sempre parla Enrico Rava, un qualcosa in cui tutti insieme si diventa contemporaneamente più grandi di sè stessi. Una comunità fusionale forse destinata a durare qualche momento, ma è un momento che poi non si dimentica più e si continuerà ad inseguire per sempre, musicisti ed ascoltatori. E qui per me e per altri che sta la ragion d’esser del jazz, quello che anche a distanza di decenni lo rende per noi non un passatempo, ma ‘musica per vivere’. Specie in questi giorni.
Da me quindi nessun ‘requiescat in pace’, niente liquidatorie lapidi virtuali, McCoy ha riposato nell’ombra anche troppo. E siccome non si è mai felici da soli (diversamente la felicità sarebbe un’oscenità), cercatelo ed ascoltatelo anche voi: è la ‘musica necessaria’ per questi giorni. Milton56
1972, “Sahara”. Il deserto che comtempla Tyner è quello della sua Philadelphia, che già allora si avvia diventare ‘Rust Belt’. La ruggine che poi genererà gli uomini dal toupet arancione. La musica parla da sola…
Grazie Milton, stupendo.
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