CARTOLINE – FANO: BLIND DATES E VECCHIE FIAMME

Lakecia Benjamin in uno splendido scatto di Andrea Rotili. Speriamo che Fano premi il suo lavoro di documentazione del festival con una adeguata mostra personale da tempo promessa

Ormai da anni ho un rapporto di consuetudine con Fano ed il suo festival jazz, al punto che ho potuto percepirne alcune evoluzioni recentemente maturate. Fano Jazz by the Sea ha una platea vasta (il main stage della Rocca Malatestiana supera i 600 posti di capienza) ed un pubblico misto, in cui tende però a prevalere una componente ‘non specialistica’ e di età media sensibilmente inferiore a quello di altre rassegne jazzistiche.

E’ logico quindi che il cartellone del main stage ne risenta nella sua impostazione, mentre lo Young Stage riservato ai giovani gruppi italiani ed ancor più le performances in solo della rassegna Exodus tendano a  mantenere una maggiore stabilità di orientamento.

Nelle ultime edizioni quindi tendo a sfruttare il cartellone della Rocca come test della mia apertura a nuove esperienze di ascolto, tendenzialmente figure emergenti da sottoporre alla ‘prova del palco’, spogliate da sofisticate e complesse produzioni che caratterizzano i loro ambiziosi esordi discografici. ‘Appuntamenti al buio’, da affrontare con il massimo di disponibilità ed apertura.

Non è il caso di Lakecia Benjamin, che già al secondo ascolto live iscrivo d’ufficio tra le ‘vecchie fiamme’. La band apparsa a Fano è stata la stessa di Bergamo Jazz 2023: Zaccai Curtis al piano, Ivan Taylor al basso ed E.J Strickland alla batteria. Anche nell’occasione fanese la giovane altoista ha dimostrato straordinari carisma e capacità di relazione con il pubblico. Ma sia ben chiaro: nel suo caso immediatezza e comunicativa coinvolgente non escludono affatto profondità e complessità di discorso, tutt’altro.

Una recentissima versione live di ‘Amerikkan Skin’ con la stessa formazione comparsa a Fano. Cliccate sul tasto ‘Trascrizione’ nella descrizione del video per leggere il testo ‘mitragliato’ da Lakecia……

Una lunga e sofferta gavetta non è valsa ad appannare la sua integrità con astuzie compiacenti. Un esempio per tutti: i travolgenti interludi rap che caratterizzano suoi cavalli di battaglia come ‘Amerikkan Skin’ (i diversamente giovani coglieranno al volo il significato delle ‘K’, doppie pure..) sono naturale e logica prosecuzione dell’incalzante fraseggio del suo sax alto, fitto e velocissimo, ma del tutto privo di sbavature o di ridondanze. Sorprendente è la capacità di Benjamin di continuare ad inanellare chorus uno dietro l’altro, con continui guizzi ed invenzioni che arrivano quando uno si aspetterebbe una logica conclusione di un discorso musicale sempre al calor bianco e che rappresenta un continuo attentato al metronomo.

Lakecia è una leader generosa, ma anche quando si ritira tra le quinte per dare spazio ai suoi partner la sua spontanea leadership continua a pesare su di un gruppo certo valido ed efficace, ma sostanzialmente funzionale alla forte visione e temperamento di Lakecia. Una nota di distinzione in più tocca al piano di Zaccai Curtis: in una band genuinamente coltraniana sino al midollo è difficile sfuggire al paragone con l’indimenticabile McCoy Tyner. A Curtis sono preclusi gli aerei ‘voli’ di Tyner, l’impresa di sostenere il passo infernale di Lakecia può riuscire solo a patto di metter in campo un pianismo essenziale e serrato, con una affilata percussività che si prolunga anche negli spazi solistici concessi dalla leader, che ripetutamente lo indica all’attenzione del pubblico.

Anche a Fano abbiamo ascoltato questo ‘My Favourite Things’ lancinante e spogliato di ogni inclinazione lirica. Qui siamo ad Udine Jazz pochi giorni fa, Notare il breve solo di Zaccai Curtis al piano

Alla fine anche senza le poetesse che telefonano, l’accorata Angela Davis ed il Wayne Shorter benedicente che affollano ‘Phoenix’ (qui la recensione dell’amico Andbar), la musica di Benjamin sbanca e travolge: anche stavolta l’ormai consueto bagno di folla finale in platea con il pubblico, in prima fila un’attivissimo fan club romano (di già…), sempre il primo a rispondere alle appassionate arringhe di Lakecia che hanno punteggiato il concerto.  

Mariasole De Pascali ed il suo esoterico flauto basso. Bella foto di Erika Belfiore

Mariasole de Pascali. Con lei invece è stato appuntamento al buio. Più che il Top Jazz vinto recentemente, a spingermi nell’afosa chiesa sconsacrata ed ora Pinacoteca di S.Domenico è stata soprattutto l’idea di ascoltare un flauto, strumento tra i miei preferiti e quantomai in oblio oggi. Ed invece di uno, ne ascoltati ben tre, che alternandosi in tre tempi distinti hanno dato varietà e vivacità ad un set altrimenti quantomai impegnativo. Anzi, direi che De Pascali in questo contesto ha saputo mostrare il meglio delle sue qualità: forse la dimensione del solo deve esserle familiare per via della sua formazione e militanza nell’ambito della musica contemporanea.

La flautista ha mostrato da subito una grande padronanza dello spazio e della scena, sfruttando a fondo gli echi e le risorse della ex chiesa di San Domenico. Giocando con questi spazi ha ampliato ulteriormente la sua già ampia tavolozza timbrica, già arricchita da tecniche volte a allargare le risorse degli strumenti (voce dentro e fuori dello strumento, accenni di slap tongue). La sua è una musica a maglie larghe, attraversata da ampi e suggestivi silenzi: in assenza di un beat continuo, anche se implicito, non può essere giudicata con canoni jazzistici. Molto intrigante l’uso del flauto traverso percosso con le dita nella sua parte finale per generare un sottile sostegno ritmico.

I molti volti strumentali di De Pascali in una curiosa clip-medley che isola vari suoi interventi solistici in un recentissimo concerto, manco a dirlo a Roma nell’ambito della solita Summertime

Sicuramente il set di maggiore fascino è stato il secondo al flauto basso, strumento inusuale dal quale de Pascali ricava sonorità sottili, sfumate e cangianti di grande suggestione. Ma non bisogna mettere in conto l’originalità della musica della giovane flautista alla sola peculiarità della scelta di strumento: anche al piccolo ottavino la De Pascali ricava sonorità e fraseggio decisamente molto originali.

Colpisce la sua grande perizia strumentale, la coerenza e la completezza del suo discorso musicale, che si sviluppa con naturalezza in una dimensione quasi orchestrale: al punto da far pensare difficile l’inserimento in un contesto di gruppo, almeno inteso in senso jazzistico con un adeguato interplay con i partner. Viene da pensare invece ad un suo inserimento ottimale in un organico plasmato intorno alle originali sonorità dei suoi strumenti e dalla singolarità delle sue concezioni musicali.

La performance è costata un rilevante impegno fisico anche a causa del caldo che gravava nella chiesa sconsacrata: ma l’entusiasmo di De Pascali non le ha impedito di affrontare un ultimo brano al flauto traverso in respirazione circolare, cosa che l’ha provata non poco. Un colpo di fulmine non solo per me, ma anche per tutta la platea della Pinacoteca S.Domenico: l’ultima sudata è stata per una standing ovation più che meritata per la vera sorpresa del Festival. Stay tuned. Milton56

Un bel saggio della creatività e delle risorse di Mariasole nella title track del suo album per Parco della Musica

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