ABBEY LINCOLN, UNA VITA ‘STRAIGHT AHEAD’

Lo confesso, non sono versato nel canto jazz.

Ma con Abbey Lincoln è stato colpo di fulmine sin dal primo momento: è c’è una ragione per l’eccezione, come si vedrà poi.

Si può ben comprendere quindi come possa aver accolto il volume di Luigi Onori “Abbey Lincoln – Una voce ribelle tra jazz e lotta politica’. Anche perché una scorsa alla corposa bibliografia compresa nel libro (frutto della collaborazione con il Jazz Institute di Darmstadt…) rivela che dalle nostre parti non è stato pubblicato pressochè nulla su di lei, quantomeno nel nuovo millennio (e quindi in qualche modo accessibile).

Pur avendo tenacemente collezionato tutti i suoi dischi che mi capitavano a tiro, non ho mai avuto modo di ascoltarla dal vivo: ne desumo che anche la sua presenza sulle nostre scene sia stata scarsa, ad esser ottimisti.

Libro prezioso, quindi, quello di Onori: non solo per l’autorevolezza della firma (tra l’altro una delle pochissime attive sulla stampa quotidiana in quell’insostituibile lavoro di cronaca di quanto avviene sui nostri palchi), ma anche per l’originalità dell’impostazione. La trattazione non è convenzionalmente lineare, vincolata alla cronologia, ma in qualche modo ‘orbita’ circolarmente intorno al pianeta Abbey, restituendoci un panorama delle sue molte facce.

Basti pensare ai vari cambi di nome che hanno scandito le svolte degli 80 anni della cantante: all’inizio è una Anne Marie Woolridge, cresciuta nel profondo Michigan rurale degli anni ’30 e ’40, che sin nella high school si scontra con il razzismo; ma dall’isolato incoraggiamento di un insegnante di musica e da una manciata di piccoli ingaggi su scala locale nasce la seduttiva Gaby Lee, prima beniamina di marinai e soldati in piccoli locali della California, e poi fascinosa ‘supper singer’ impegnata nel fornire un soffuso sottofondo musicale per cene eleganti. Sarà poi Bob Russell, il suo primo agente serio ed attento (e forse un pigmalione decisivo per la sua maturazione artistica) a scovarle il bizzarro ‘Abbey’ (‘fa tanto francese’…) ed un profetico ‘Lincoln’. A fine anni ’60 un viaggio in Africa guidato dall’amica Miriam Makeba le frutterà un altro ‘battesimo’: Sekou Tourè, il carismatico presidente della Guinea, la chiamerà ‘Aminata’, ‘colei che è degna di fiducia’. A questo nome (condiviso con la moglie e la figlia di Tourè, tra l’altro), la Lincoln rimarrà legatissima nell’ultima parte della sua vita.

1957 . ‘Ebony’, bibbia della nascente borghesia nera in ascesa, vuole la sua Marylin: ad Abbey il suo famoso vestito rosso sta a pennello, le misure sono le stesse…

Altro merito della narrazione di Onori è quello di puntare il faro su alcuni momenti in ombra della vita e della carriera della cantante. A partire dai faticosi esordii, di cui Abbey serberà un ricordo cupo ed a tratti scioccante, ma che saranno illuminati da un fuggevole incontro con Billie Holiday, che sin da allora rappresenterà una guida ed una fonte di ispirazione costante, sul palco e fuori. Sotto gli eleganti abiti di scena con cui la supper singer deve mettere in evidenza una bellezza prorompente (paradossalmente nel suo caso vissuta problematicamente, anziché come chiave capace di aprire molte porte nello showbiz americano) già cova qualcosa d’altro, sia musicalmente che personalmente.

1964. ‘Freedom Day’ dal vivo, in una magnifica ripresa della TV Belga: complimenti, anche perchè le cose loro le conservano. Abbey arriva alla fine…

Nella memoria di noi pochi appassionati di Abbey per molto tempo il momento clou della sua carriera è parso quello della partecipazione all’epocale ‘We insist! Freedom Now Suite’, concepito da Max Roach, visto un poco come il pigmalione di Abbey. Su questo ruolo determinante di Roach Onori dimostra di avere un punto di vista più sfumato; certamente il grande batterista le ha schiuso le porte di un ambiente musicale di grande creatività e fervore, le mille miglia distante dai mestieranti della musica che accompagnavano Abbey nei supper club. Certamente ha anche contribuito a dissipare un complesso di inferiorità (“Ma io non sono una jazz singer….” E Roach di rimando: “Ma sei nera, no?”) e le ha dato l’opportunità di registrare con un’etichetta come Riverside ed un produttore come Orrin Keepnews.

In album come ‘That’s Him’, ‘Its magic’, ‘Abbey is Blue’ si assiste ad una progressione in cui la voce tagliente, netta e scandita della Lincoln si libera del tutto dei belletti (in verità pochi anche in precedenza) della supper singer di successo e rivela una personalità già da allora inconfondibile. Trovarsi a dialogare con gente del livello di Sonny Rollins, Coleman Hawkins (che allora viveva una seconda giovinezza), Booker Little, Kenny Dorham libera la farfalla dalla crisalide. Quanto ai pianisti, Roach la fa sognare ad occhi aperti: Wynton Kelly, oggetto del desiderio di tutte le jazz singer di prima grandezza e che l’anno successivo Miles Davis volle in studio per ‘Kind of Blue’, e dulcis in fundo Mal Waldron, ultimo accompagnatore dell’idolatrata Billie Holiday.

Per ‘Straight Ahead’ del 1961 troverete una pioggia di stellette su qualsiasi guida discografica (anche quelle più critiche e taglienti). La copertina già parla da sola, ma nell’infilata di splendide songs di grande firma (il poeta Langston Hughes, l’Oscar Brown jr. l’eminenza grigia di ‘We Insist’, Billie Holiday e Mal Waldron) ce n’è una tutta particolare, e che racconta già di una storia futura ancora da scrivere: ‘Blue Monk’ è un brano strumentale che la ragazzina Abbey ha tante volte ascoltato alla radio, ed ora lei azzarda ad adattargli un suo testo. Roach chiama in studio Monk per fargli ascoltare il nastro appena registrato: dall’insondabile galassia monkiana giunge un laconico ed enigmatico “Non essere così perfetta”. Da una piccola incoscienza giovanile  è  nata la Abbey autrice di propri testi.

formidabile Malindi, ma non aveva con sè la dream band che dialoga serratamente con Abbey…..

“We Insist! Freedom Now Suite” è un vero sasso nello stagno, paradossalmente soprattutto nell’ambiente musicale dove accende aspre polemiche. E si bagnano in parecchi dei partecipanti alla storica incisione. La coppia Roach – Lincoln per anni stenterà a trovare lavoro negli States, per fortuna c’è l’Europa dove quello che appare il menage più engagè del jazz ottiene grandi successi e molta visibilità: le televisioni francese e belga hanno salvato diverse loro performances, ancora reperibili su YouTube. Ma se Max Roach è già una figura centrale ed indiscutibile della scena musicale americana e presto si lascerà alle spalle il silenzioso boicottaggio, forse sarà Abbey a scontarlo più pesantemente: le sue ultime incisioni (sempre con il marito Max) si fermano al 1963, poi una lunga pausa di silenzio, quantomeno discografico.

Negli anni che seguono Abbey si dedica a molte cose, ‘amorevolmente’ seguita anche dall’ FBI (nel frattempo ruvidamente strapazzato dalla controinchiesta del Procuratore Garrison sull’assassinio di John Fitzgerald Kennedy). Ai pronunziamenti pubblici (che puntano spesso però a questioni di vita quotidiana, particolarmente delle donne nere) si alternano ritorni sulle scene, in particolare sui sets cinematografici: anche qui la Lincoln lascia il segno, soprattutto con ‘For Love of Ivy’ (‘Un marito per Ivy’) dove a fianco di Sidney Poitier, già icona del black pride, rasenta la vittoria nel Golden Globe.  

Nel 1970 una svolta: il divorzio da Max Roach. E’ una separazione amara e dolorosa tra due che avevano percorso fianco a fianco una via avventurosa, ma dura. Il colpo per Abbey è pesante: segue un ricovero volontario in clinica. Poi l’amica Miriam Makeba la salva con il lungo, catartico viaggio in Africa del 1972- 1973: Abbey ha la concreta conferma di essere una ideale figlia di quella terra, solo smarrita nel grande deserto americano. Che lei però non abbandona: trascorre anni a Los Angeles assistendo la adorata madre Evalina (una delle tante madri coraggio single della storia del jazz) in un rumoroso appartamento affacciato su di una frastornante urban higway.

Un fiume non di acque, ma di automobili….. Enja, la label tedesca che nei ’70 fu il felice rifugio di molti grandi expat americani: se la ricordano in pochi, scommetto   

Nel Giappone del 1973 la Lincoln ritorna sporadicamente in studio di registrazione. La provvidenza della musica fa sì che lì capiti Miles Davis, anche lui in tourneè nel Sol Levante. Al ‘perfido’ Miles basta ascoltare solo per qualche minuto i musicisti giapponesi che accompagnano la cantante per decidere su due piedi di ‘prestarle’ metà del suo gruppo: Dave Liebman, Al Foster ed il percussionista Mtume danno una spinta decisiva a ‘People in me’ (titolato anche ‘Naturally’), rarissima avis rintracciabile solo in YouTube, temo. Lincoln non dimenticherà: il suo ammirato ‘Bird Alone’ è dedicato a Miles.

Abbiamo detto che Abbey sfugge alla tentazione dell’esilio e continua a scrivere ed occasionalmente a recitare nell’America di Reagan, figurarsi quanto potesse esserle congeniale. Ma la sua musica futura è destinata a nascere altrove. Parigi, 1980. Il produttore Gerard Terrones mette in piedi – forse al volo – una seduta di registrazione con lei per la sua Futura Marge. Parigi ancora pullula di jazzmen espatriati, ma Terrones si conferma rabdomante infallibile: le mette fianco il raffinato e ricercato pianista Hilton Ruiz (purtroppo ora dimenticato), Roy Burrowes alla tromba, Jack Gregg al basso, Freddie Waits alla batteria e…. Archie Shepp ai saxes tenore e soprano (!!). Una coppia perfetta ques’ultima, combinata al momento giusto: stessi colori scuri e cangianti, stessa emissione tagliente, stessa ironia amara. Peccato solo che sia stato solo un ‘one stand’…..

‘Una signora truccata sul palco’, la consapevolezza e l’autoironia di Abbey che spesso riemergeranno. Brechtiana, direi…

Dopo la Monaco della Enja del bel ‘Talking to the Sun’ del ‘The River’ di cui sopra (pubblicherà anche due ‘Abbey Sings Billie’), è ancora Parigi, per un incontro decisivo: Jean Philippe Allard è un produttore della Verve francese, sottoetichetta Gitanes Jazz (sì, proprio come le ruvide sigarette del grande cinema francese). Gli sono a fianco il collega Daniel Richard ed il tecnico del suono Jay Newland. Il trio regala ad Abbey un autunno più abbagliante di tante primavere, come diceva un poeta dell’Antologia Palatina: segue una serie serratissima di album (quasi uno all’anno…) che rappresenteranno la stagione più bella della nostra cantante (“Io già pensavo di scomparire nell’oscurità, di tanta gente si parla più da morta che da viva”, commenterà lei sorpresa). Adesso Abbey è non solo autrice a pieno titolo, ma anche bandleader di grande autorevolezza. E qui Allard si rivela decisivo nel procurarle collaborazioni eclatanti e di livello stellare: Charlie Haden, Clark Terry, Jackie McLean, Hank Jones per un prezioso album in duo, Kenny Barron, Bobby Hutcherson. Ma per il primo album di questa serie smagliante, ‘You gotta pay the band’ del 1991, riesce  a realizzare un ‘sorprendente’ desiderio della cantante. E voilà, e lei si ritrova in studio Stan Getz, ‘The Sound’: un piccolo miracolo,  per lui è l’ultimo giro di giostra, e lo sa, morirà poco dopo. Il risultato è questo:

“Everything is a magic at a cost”….. ancora brechtiana, Abbey. Un utile promemoria soprattutto per i nostri tempi, direi 😉 . Attenzione al solo finale di Getz.  

La splendida serie comprende anche ‘The World is Fallin Down’ (già nel 1990, chissà cosa avrebbe detto oggi..), ‘When there is Love’ (il duo con Hank Jones in cui Abbey dimostra di non aver mai veramente litigato con gli standards), ‘Devil’s got your tongue’ (sic!), ‘A turtle’s dream’, ‘Who used to dance’, ‘Wholly Earth”, ‘Over the Years’, ‘It’s me’ ed infine ‘Abbey sings Abbey’ del 2007. Ma la bandleader Abbey non guarda solo in alto nell’Olimpo del jazz: inserisce nelle sue working band uno Steve Coleman che ancora suonava per strada, scrittura per uno dei suoi album Verve Gitanes un imberbe Pat Metheny: si conferma donna generosa, oltre che fine musicista a tutto tondo. Nemmeno un’operazione a cuore aperto del 2005 riesce a fermarla: dopo ancora dischi, ancora concerti sino alla ‘bottom line’ del 2010. Ottanta anni di vita, quasi sessanta di musica.

Ancora una volta il libro di Onori si rivela guida preziosissima, con la sua dettagliata analisi di tutti questi album. All’epoca io riuscii ad acciuffarne solo un paio, secondo me non ebbero grande circolazione in Italia nonostante la qualità smagliante sia musicale che editoriale: probabilmente c’entra il nostro oscuro senso d’inferiorità (ben giustificato) verso le cose di cultura francesi. Una volta tanto possiamo dire grazie allo streaming, che offre questa discografia praticamente al completo.

Ed invece Abbey l’ha avuta sempre nel cuore la Francia, seconda patria del jazz sin dai tempi di Jim Europe ed i suoi Hellfighters. “Qui mi trattano come una regina, ed io cosa posso fare per loro?”, dichiarò in un’intervista. Semplice: imparare il francese ad oltre cinquant’anni suonati. Ma impararlo per cantare come Abbey, con una dizione perfetta ed assolutamente leggibile che non andava mai a detrimento delle sfumature d’espressione, un vero libro stampato (e bene, come quelli di una volta). Perché per Abbey la parola non è un suono su cui ricamare, ma un significato, la quintessenza di una vita spesso amara, punteggiata di abbandoni, di occasioni perdute, di delusioni, sempre però gettate alle spalle con energia e coraggio indomabili, tirando dritto. ‘Straight away’, appunto… Milton56

“Se prima avessi saputo chi era Leo Ferrè, non mi sarei mai azzardata”: sempre modesta Abbey. Ma ora è fatta. Per fortuna…. Occhio alla formazione….

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