Nell’imminenza del concerto del James Brandon Lewis Quartet con Aruan Ortiz,Brad Jones e Chad Taylor a il prossimo 11 novembre nell’ambito dell’appendice autunnale del festival jazz locale, racchiusa in un fine settimana ed intitoalata NJ Weekender Fall edition, dedichiamo queste righe alla carriera del sassofonista di Buffalo, una delle più interessanti figure emerse in anni recenti nel panorama jazz statunitense. E per questo, come puntualmente accade, notato ed accaparrato dai solerti ed attenti organizzatori di Novara Jazz.
Partiamo da alcune impressioni di ascolto del più recente lavoro del Lily Quintet di Brandon Lewis, “For Mahalia , with love“(Tao forms) da poco reperibile sul mercato, e concludiamo con un’intervista esclusiva realizzata per TdJ nel 2017, quando la stella di Lewis iniziava appena a brillare, ma già lanciava segnali eloquenti.

Il nuovo episodio del Red Lily Quintet guidato dal sassofonista James Brandon Lewis prosegue nella linea di affermazione identitaria sociale e musicale inaugurata con il precedente “Jesup Wagon” , pubblicato due anni fa e dedicato alla vita ed al lavoro dell’agronomo George Washington Carver, figura di rilievo nell’emencipazione dalla schiavitù del popolo afroamericano. Questa volta la dedica è per la cantante e attivista dei diritti civili Mahalia Jackson, ed il rapporto con il personaggio che ispira l’opera è ancora più stretto, dato che le canzoni di Mahalia hanno accompagnato l’infanzia di Brandon Lewis nei periodo trascorsi in compagnia della nonna. Da qui una chiara presentazione autografa del disco : “Più che un tributo questo lavoro è una conversazione a tre voci fra Mahalia, mia nonna e me”.
Il terreno nel quale questo intimo rapporto è riversato è quello di una bruciante intensità che si connette, nei dialoghi strumentali del quintetto, alla forza dirompente ed incontaminata della voce ed all’universo di valori dei quali la Jackson è stata parte attiva fino alla fine degli anni sessanta. In nove brani di media durata, tratti dalla tradizione gospe , con l’unica eccezione dell’iniziale, innodica “Sparrow,” un medley fra “His Eye Is onthe Sparrow” di Charlie Gabriel’s e Civilla D. Martin e l’originale di Lewis’ “Even the Sparrow”, (inclusa nel precedente album in trio “Eye of i” ) il quintetto costruisce un affresco di storia e cultura afromericana nel quale il blues ed il gospel sono la materia prima per una narrazione che utilizza forme storicizzate del jazz, (il free, il jazz spirituale) in una chiave assolutamente contemporanea. Un continuum storico che solo grazie alla musica diventa talvolta possibile. In tale contesto si colgono nitidamente le differenze fra le due voci principali, il sax di Lewis e la tromba di Kirk Knuffke, ove il primo che utilizza un linguaggio epigono di Ayler e Coltrane, con la tendenza ad aggrovigliare le frasi ed incrementarne la complessità (ascoltatelo nella intro di “Deep river” ) , ed il secondo artefice di una narrazione agilissima ma maggiormente lineare e nitida. Al contrabbasso di William Parker ed al violoncello di Chris Hoffman sono riservati ruoli altrettanto fondamentali, quelli inerenti la creazione del contesto ed il supporto strutturale di esecuzioni che traggono la propria spinta ritmica nelle creazioni di Chad Taylor. In un programma omogeneo per densità di contenuti e qualità musicale, mi preme segnalare una “Swing low” nella quale il sax di Lewis sembra poter fare tutto da solo, salvo poi arricchire, nella chiave collettiva, con un’energia quasi tribale della ritmica e gli estesi soli della tromba, il motivo del brano originale. E la chiave “traditional” che caratterizza l’avvio di “Go down Moses”, poi rapidamente evoluta in un intenso dialogo fra i due fiati che lascia spazio prima alla arrembante batteria di Taylor e quindi ad una sezione improvvisata del contrabbasso, per poi fare ritorno alle forme iniziali. O la tinta latina di una “Wade in the water” costruita nei contrasti fra tensione e stasi, il senso quasi mistico evocato dall’incedere di “Deep river“, nella quale sax e tromba disegnano assoli di grande efficacia , l’acida sezione iniziale di “Elijha rock“, poi sorprendente nell’apertura swingante,
Insomma, un disco tutto da ascoltare.
n.b. Il cd è stato pubblicato in versione singola ed in una deluxe che comprende un secondo dischetto contenente la suite per archi ‘These Are Soulful Days’ composta da James Brandon Lewis ed eseguita con il Lutosławski Quartet.
Sulle tracce di JBL (2017) by Arturo Pepe
Il recupero di questa intervista fa parte di un possibile più ampio ripescaggio che il nostro AndBar è andato a scovare con una sorta di “macchina del tempo” virtuale che richiama il contenuto di siti defunti e offline anche da anni, numerosi pezzi che tutto sommato hanno ancora un certo interesse, e che ogni tanto riproporremo, visto che la musica di cui ci occupiamo per lo più non ha date di scadenza. E questo che segue era l’incipit alla chiacchierata con JBL.
Su James Brandon Lewis, negli ultimi anni, si sono addensate attenzioni assai elevate, figlie di un paio di dischi straordinari come “Days Of Freeman”, tensione coltraniana ed afrori hip-hop, ed il precedente “Divine Travels” che lo aveva imposto all’attenzione generale come voce originale all’interno del panorama afroamericano di New York. Il suo approccio materico rimanda direttamente ai grandi della nostra musica, anche nell’afflato spirituale che avvolge lavori poliedrici, sviluppati con grande feeling.
Oltre oceano, per dirlo in modo assai conciso, JBL è stato definito tout court “One of the modern titans of the tenor”, difficile non convenire…
La nostra Redazione, al cui interno convivono felicemente gusti jazzistici profondamente diversi, si è ritrovata concorde sul valore di questo sassofonista (e compositore) classe 1983, dandone conto nel nostro Poll 2016, e puntando su di un jazzman che può diventare uno dei perni su cui andrà a girare negli anni a venire la musica che tanto amiamo.
James Brandon Lewis ha accettato con entusiasmo una breve intervista col nostro portale, per presentarsi al pubblico Italiano che in questa primavera lo ha visto all’opera su alcuni palchi della penisola. Let’s start!
TdJ) Ci puoi parlare del tuo background familiare, e dei tuoi inizi?
JBL) Sono originario di Buffalo (NY) ed ho iniziato ad avvicinarmi alla musica già a 9 anni, suonando il clarinetto, mentre lo studio del sassofono comincia a 12 anni. Sia mia mamma che mio papà sono ai miei occhi dei meravigliosi esseri umani ,dotati di grande creatività ed io non posso che ringraziarli e benedire il supporto che mi hanno dato, e che continuo ad avvertire. Grazie a loro ho potuto frequentare, per sette anni (dal 5^ grado al 12^) l’ottima Buffalo Accademy for Visual and Performing Arts, anni di formazione e di grande crescita personale. Il mio cammino educativo è poi proseguito alla Howard University e più tardi ho ottenuto il mio “Master of Fine Arts” presso il California Institute of the Arts. Attualmente vivo a New York City.
Tdj) Ed il tuo primo incontro con il jazz?
JBL) Fin da piccolissimo, grazie soprattutto a mia mamma, ho potuto ascoltare dischi e trasmissioni di stampo jazzistico. Jazz che ho poi incontrato “ufficialmente” già a 12 anni, quando passai dal clarinetto a sax e feci le mie prime esperienze live. All’epoca suonavo musica gospel strumentale, in duo con un caro amico:pianoforte e sax. Il primo disco Jazz che ho comprato è stato “Charlie Parker All Stars Concert, -1949”, un disco che per certi versi si rivelò fondamentale, per me, e che amo ancora molto.
TdJ) Passando ad oggi ed al tuo ultimo disco “No Filter” ti dirò che la prima cosa che ho avvertito è la ruggente “urgenza interiore” che lo anima dall’inizio alla fine. Ci vuoi parlare di questo lavoro?
Certamente! No Filter è uscito per BNS Session, un indie label, non particolarmente specializzata in Jazz ma che ha creduto molto in questa musica. Volevo realizzare un album che fosse brusco e diretto, che sapesse catturare l’intensità del giorno, volevo energia, ancora energia, il massimo dell’energia per avere la più grande delle libertà.
Trovo che sia un’interessante seguito di “Days Of Freeman”. Penso che catturi molto in 6 tracce…belle selvagge.
Volevo documentare questo New Trio con il bassista Luke Stewart e il batterista Warren Trae Crudup, che si sono buttati a capofitto in questa avventura.
Il disco ospita anche il chitarrista Anthony Pirog, il rapper P.S.O The Hearth Tone King e il vocalist NIcholas Ryan Giant.
TdJ) Quanto al trio con Roy Roston…dobbiamo considerarlo un’esperienza finita? (confidiamo in qualche nuova incisione con lui alla batteria)
JBL)Spero di collaborare ancora con lui un giorno. Persona straordinaria e fantastico musicista. Adesso però sto costruendo qualcosa con i ragazzi del mio gruppo e io gli sono grato, li ringrazio e cercherò di continuare a crescere con loro e attraverso il loro contributo.
TdJ) Hai in programma anche altri progetti con largo organico?
JBL) Sto lavorando a diversi progetti che trovo molto stimolanti, ma perdonami, non voglio dire di più fino a che non ne sono sicuro al 100% che vadano in porto.
TdJ) Cosa pensi del movimento “BAM” e di ciò che attualmente gira attorno a questo acronimo (Black American Music)? Potresti essere una delle principali icone di questo “movimento”, anche se per un jazzfan sentir parlare di Jazz Vs. Bam provoca una certa sofferenza…
JBL) Sono ben consapevole di dove siano le radici e di come sia nata questa musica. Sono costantemente alla ricerca della “mia verità”. Ogni giorno, per me, significa ricerca, ed in particolare ricerca della versione più vera di me stesso ed è un risultato cui voglio arrivare il più possibile vicino, prima di lasciare questo pianeta.
Ora, non sono sicuro che questa sia una risposta alla tua domanda, ma yeah, secondo me uno deve sempre cercare la propria verità e lottare per ottenerla, non deve sempre appoggiarsi a verità raccolte e sfornate bell’e pronte, se noi concordiamo con certe posizioni storiche assodate allora benissimo, ma lasciamo che il tutto sia naturale e che chi ritiene invece di avere visioni diverse, possa avere il pieno diritto ad esporlo.
TdJ) Dando uno sguardo alla scena jazzistica attuale penso che siate tu e JD Allen i “giovani” che stanno scavando con rigore nelle vostre radici, facendo emergere lavori importanti, in modi affatto differenti. C’è un’avvertibile aura spirituale in questi dischi e nella tua musica. Senti la responsabilità di quel che stai cercando di fare?
JBL) Oh, JD Allen è davvero un’ispirazione per me!
E per il resto si, sento una profonda responsabilità, mi ricollego a quanto ti ho detto prima, non cesso mai di ricercare la versione più Vera di me stesso, il mio compito in fondo è quello di essere un vascello per la musica che passa attraverso di me, suonandola nel modo più vivo e vero. L’unico modo per onorare questo impegno, questa responsabilità che tu citi, è mantenere sempre una grande umiltà rispetto ai risultati raggiunti, senza mai fermarsi a quelli, ben sapendo che la realizzazione di questo disegno apparirà come un continuum e non come una somma di singoli episodi.
Tdj) A Bergamo Jazz ti abbiamo visto nel gruppo di William Parker…
JBL) Si! Ho recentemente suonato con il William Parker Organ Quartet al Bergamo Jazz Festival, un esperienza eccitante. Potere suonare ancora con William Parker è stato un grande onore, così come suonare con Cooper Moore e Hamid Drake…un’esperienza da cui cercherò di trarre il massimo come insegnamento e crescita…
Tdj) Ti piace il nostro Paese? Conosci musicisti italiani?
JBL)Beh, amo l’Italia, e ho avuto piacere di suonare qui diverse volte, con il trio di No Filter quest’anno, in passato al Conservatorio di Salerno e in altri posti, un paese fantastico ai miei occhi.
Per quanto riguarda i jazzisti italiani apprezzo in particolare la vostra contrabbassista Silvia Bolognesi, che ho sentito suonare al Vision Festival in NYC.
Tdj) Che libro stai leggendo, attualmente?
“Treat It Gentle”. L’autobiografia di Sydney Bechet.
Tdj) Un’ultima cosa, se ti va, vorremmo un accenno a come un artista come te sta vivendo questo momento storico negli USA, con Trump alla Casa Bianca e le relative conseguenze.
Lo sto vivendo bene, sono consapevole e sveglio.
La risposta, assai musicale in inglese, ““I am living well and aware and awoke”, suona secca e convinta come uno dei suoi assoli. Il pensiero limpido e dai contorni zen di questo giovane con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto sul futuro ha attraversato anche questa chiacchierata informale, per la quale lo ringraziamo ancora di cuore.
Sarà un privilegio continuare a seguirne il volo.
