“…in merito alle liste dei best di fine anno, (…) è molto meglio leggere quelle degli altri che stilare la propria”. Parole sante del collega Andbar, citato alla lettera.
Lo so, a Natale bisognerebbe metter tra parentesi lo spirito critico e concedersi una pausa di volenteroso buonismo. Ma non nascondo che non appena è stato sollevato l’argomento del ‘best’ di fine anno, la mia prima reazione è stata quella di un vuoto mentale, nessun affollarsi di titoli tra cui fare scelte sofferte in stile ‘gioco della torre’. A questo punto qualcuno potrebbe saltare alla conclusione che questo per me sia stato un anno musicalmente sterile: non è affatto così, ho sentito molta buona musica, qualcheduna addirittura eccellente ed emozionante: ma dai palchi dei concerti però.
Il panorama discografico è però altra cosa, meno brillante e memorabile: dubito che tra gli album di quest’anno ce ne siano di quelli che verranno ricordati come pietre miliari od oggetti di culto di qui a 10 – 20 anni, di quelli che ci ricordiamo nota per nota, foto per foto. E non è questione di momento più o meno felice di singoli musicisti o gruppi, è questione di come si realizzano oggi i dischi. E qualche rapida riflessione a riguardo va pur fatta, anche a Natale.
Di album se ne producono molti, in certi casi direi anche troppi: ai tempi d’oro ne uscivano meno, ma decisamente più ‘meditati’ e preparati. Il disco era un punto di arrivo, di sintesi di un lavoro precedente fatto sul palco che aveva portato al massimo livello l’intesa di gruppo. Oggi nella maggior parte dei casi non mi sembra sia più così: il disco viene spesso ‘prima’ della tourneè, a volte è una specie di sua ‘demo’ con cui si lancia un organico inedito per richiamare su di esso l’attenzione del circuito live. Spesso nella quiete protetta dello studio ci si concede qualcosa che difficilmente sarà replicabile sul palco, quantomeno con gli stessi standard di accuratezza e pulizia: è il caso delle elettroniche, ma anche di certi mix di spoken word e sonorizzazione d’ambiente che appassiscono rapidamente dal vivo quando sono forzatamente affidati a basi preregistrate. Per tacere della coesione di gruppo: in studio c’è sempre la possibilità della seconda take, sul palco no.
Considerata la disastrosa situazione del mercato della musica, che di fatto costringe i musicisti a correre da un palco all’altro per questioni di sopravvivenza, è logico che tempo e risorse da dedicare ai dischi ne rimangano ben pochi, soprattutto se si pensa alla ristrettezza e problematicità del loro mercato: ci manca solo qualche altra ulteriore moda balzana come il ritorno del 78 giri (già siamo a quello della musicassetta….) per dargli il definitivo colpo di grazia. E’ chiaro che però così si crea un circolo vizioso che si autoalimenta.

Altro fattore di crisi che incombe sul mondo del disco è la pressoché totale eclisse della figura del produttore. Nei miei anni più verdi spesso li si considerava i ‘padroni della musica’, oppressori per definizione del proletario sfruttato che stava davanti al microfono. Senonchè queste scene di lotta di classe formato studio di registrazione già erano materia da storici nei primi anni ’60….. e poi senza gli Alfred Lion, i Bob Thiele, i Michael Cuscuna sarebbe difficile immaginare interi capitoli della storia del jazz. ‘Il produttore è il primo ascoltatore’: massima di grande spessore, che pesa ancor più pensando che ci viene da Keith Jarrett, non esattamente la modestia fatta persona. Come avrete capito, guardo con molto scetticismo alla moda delle autoproduzioni, per tacere di quella delle microetichette personali destinate a diventare o la tomba di tanta musica, o fatalmente magazzino da svendere a prezzi da liquidazione alle piovre dello streaming. E su queste ultime sì che si dovrebbero fare serrate e taglienti analisi politiche in stile anni ’70: gli stiamo consegnando un potere enorme. Potere che insidia anche le pochissime labels con una fisionomia ben definitiva e caratterizzata, che ormai possono sopravvivere solo se in qualche modo inserite in qualche colosso multinazionale dei media.
Qualcuno potrebbe anche chiedersi il perché di tanta trepidazione per l’oggetto disco. Semplice: perché nel jazz il disco è l’opera, e senza il supporto registrato la vita e lo sviluppo di questa musica come linguaggio creativo globale non sono nemmeno concepibili. Per tacere poi dell’estrema sensibilità del jazz ad ogni trasformazione delle tecnologie di ripresa e riproduzione sonora.
Ma dopo il pistolotto da guastafeste, rientriamo disciplinatamente sotto l’abete natalizio, insieme alle statuine del presepe. Come vedete, la filippica è inframezzata da varie clips musicali, tutte provenienti da album nuovi usciti nel 2023; ho volutamente escluso riedizioni storiche, che meriterebbero un discorso a parte, pur trattandosi di segmento quantomai vitale ed interessante.
Mantengo comunque il punto: dietro le scelte non c’è nessun lambiccato ragionamento su tendenze, scenari etc.: semplicemente sono le cose che vi farei sentire se capitaste da me, senza alcuna gerarchia di valore. L’unico filo che le lega è il piacere d’ascolto e la riuscita estetica ed espressiva, fattori che molto spesso latitano da tanti discorsi odierni sulla musica, in particolare sulla nostra. Cliccate e godetevele, possibilmente approfondendo. Nel qual caso, consiglio di allontanarsi non appena possibile da quel caotico guazzabuglio che ormai è diventato YouTube: piattaforma cui io ricorro solo per questioni di democraticità ed universalità d’accesso da parte vostra, ma scontando molte limitazioni di scelta. Stay tuned (ed occhio alle cartoline sulla ‘musica dei palchi’). Milton56
Anche nelle cronache jazzistiche c’è la Zona Cesarini, come nel calcio. All’ultimo minuto mi appare la Secret Society di Darcy James Argue. Dopo Oscar Peterson, dopo Paul Bley, ecco un altro dono del Canada, quello che ci ha dato anche Gil Evans e le sue iridescenti big band. Questa è una degna discendente….

Tutti decisamente da ascoltare con calma. Grazie. E Auguri.
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