TORINO JAZZ FESTIVAL – I FOTOGRAMMI

Può sembrare un tantino crudele venirvi a parlare di due film che hanno avuto solo un fugace passaggio in un festival a beneficio di qualche decina di fortunati. Ma lo faccio anche perché c’è una sottile speranza che entrambe le pellicole possano fare la loro ricomparsa altrove, soprattutto in qualche festival italiano che potrebbe in un caso beneficiare non di una semplice replica, ma di qualcosa di più e di nuovo.

Il Torino Jazz Festival aveva un asso nella manica: il sostegno e la collaborazione del Museo Nazionale del Cinema (ricordiamo che Torino è stata la prima culla della cinematografia italiana). Un supporto che si è tradotto non solo nella messa a disposizione di film rari (ancora una volta mi è scappato l’intenso e problematico ‘Paris Blues’ di Martin Ritt, un giorno bisognerà parlarne seriamente, sempreché riemerga su qualche piattaforma nostrana), ma in una vera e propria produzione.

Infatti ‘Steve ed il Duca’ del regista Germano Maccioni ha visto ultimare il suo montaggio solo un paio di giorni prima della proiezione, e dopo che il Museo del Cinema aveva dato un contributo decisivo nel reperire i finanziamenti per l’operazione. In altre parole, senza il Festival ed il Museo il lavoro difficilmente avrebbe visto la luce.

‘Steve ed il Duca’ è un’opera complessa e, come si vedrà poi, ancora in progress. Innanzitutto ha due registi: uno fuori campo, Maccioni, e l’altro ‘in campo’, Franco Maresco. Mentre Maccioni ha lavorato molto davanti alla moviola per selezionare e dare forma compiuta ad un girato grezzo molto ampio, Maresco è la voce narrante – ma quasi sempre in primo piano – di questa specie di flusso di coscienza cinematografico alimentato dalla memoria del regista siciliano.

Il lavoro si sviluppa su almeno tre piani, con una sorta di struttura a scatole cinesi. Il primo, che fa da cornice, è quello del presente: Maresco e Maccioni ripercorrono in auto una Palermo notturna alla ricerca di luoghi della memoria, ricognizione accompagnata dallo scoramento di Maresco di fronte alle mutazioni della sua città.

Il secondo è quello del Festival Pop di Palermo del 1970, forse il primo in Italia insieme a quello di Zerbo: un evento che ormai appare quasi mitologico, e che rappresentò il canto del cigno di una stagione palermitana di vivacità intellettuale (rammentiamo che il congresso del Gruppo ’63 si svolse proprio lì), destinata a venir completamente sommersa dall’onda di sangue e di violenza dei decenni successivi. Se non sbaglio, non sopravvive più nemmeno lo stadio che lo ospitò.

Tra molte star del pop, più o meno effimere, fece un’apparizione che ebbe del surreale la band di Duke Ellington, che accese la fantasia dei pochi, ma entusiasti jazzofili siciliani che la vissero come un qualcosa di quasi soprannaturale (è stato scritto anche un romanzo sull’argomento). E ciò ad onta della prestazione tutt’altro che eccelsa della formazione del Duca, ormai avviata su un malinconico viale del tramonto. Mediocrità di cui Maresco, grande appassionato di jazz, era perfettamente consapevole: ma l’evento fece nascere in lui la tentazione di indagare questa musica ‘dietro le quinte’, cominciando a filmare avventurosamente – e spesso pericolosamente  – tutti i jazzmen che gli capitarono a tiro negli anni successivi. Dopo le prime reazioni infastidite ed addirittura ostili, pian piano il nostro riuscì a costruire un rapporto di confidenza e di intimità con molti musicisti.

S.Maria dello Spasimo è bene Unesco…. in anni passati ci sono tenuti magici concerti notturni

E qui arriviamo allo Spasimo, nel 1999. Maresco convince Steve Lacy, ormai amico, a suonarvi in solo una serie di brani di Ellington. La performance viene ripresa da un vero asso della steadycam (allora arnese pesante e difficile da maneggiare, purtroppo non ricordo il nome di questo bravo operatore): il girato è di una intensità straordinaria, con la camera che ruota continuamente intorno al sassofonista, con primi piani emozionanti che colgono tutta la tensione dell’improvvisazione. Ve lo dice uno che in anni lontani ha avuto la fortuna di vedere suonare Lacy a due metri di distanza in un defunto locale blues dell’hinterland milanese.

“Coltrane ed il soprano? Lui è stato un marito infedele, lo tradiva con il tenore. Io no. E per questo lui mi ha portato sulla Luna” Steve Lacy parla a Maresco del suo rapporto con lo strumento

Ma non c’è solo questo: nell’intervallo tra un brano e l’altro si snoda una confidenziale e straordinaria intervista in cui Steve Lacy ci rivela il suo rapporto col Duca, e con le sue laconiche risposte sapienziali da maestro zen ci offre uno sguardo lucido ed anticonvenzionale sulla musica afroamericana e i suoi miti. In questo sollecitato da un Maresco quantomai empatico e partecipe, che mette in gioco anche i suoi crucci personali di pianista mancato. Ne esce un ritratto di Steve che per sottigliezza e profondità psicologica sovrasta di gran lunga la media dei documentari di soggetto jazzistico che ho sinora visto.

Purtroppo questo piccolo tesoro ha a suo tempo preso la forma di una produzione di Telepiù – Canal Plus, emittente di qualità purtroppo travolta dall’ondata di ciarpame catodico successivo. Ci vorrebbe uno Zev Feldman del cinema per mettersi sulle tracce dei diritti relativi a questo documentario e per sbrogliare i grovigli legali che certamente lo imprigionano. Ma se persino un vero campione del pessimismo cosmico siciliano come Maresco nutre un filo di speranza sulla liberazione di questi straordinari materiali (cfr. gustoso dialogo via web con il pubblico del Cinema Massimo di Torino), ci vorrebbe ora un altro festival che si imbarcasse nell’avventura di far evolvere questo Ur-Film, come lo definirebbero i filologi, in qualcosa di più ampio e compiuto: in premio avrebbe la prima delle splendide interpretazioni ellingtoniane di Lacy, un ‘colpo’ che farebbe certo l’invidia di molti. “Spes ultima dea”: io il mio messaggio in bottiglia l’ho lanciato tra i flutti del web….

Un altro confronto tra Maresco e Lacy: qui ci imbattiamo in una delle tante occasioni mancate del jazz, Steve nel gruppo di Miles Davis. Veniamo risarciti con un bel  ‘Blue in Green’ che però fa pensare a quanto abbiamo perso. Grazie al titolare del canale che ha salvato questa ‘scheggia’ della RaiTre di vent’anni fa, non voglio nemmeno pensare a che fine possa aver fatto questo materiale negli archivi RAI…

Anche l’appuntamento con lo ‘Zorn 3’ di Mathieu Amalric è stato a suo modo straordinario, ma per motivi diversi. Amalric è un personaggio di primo piano di quel cinema francese tanto snobbato dalle nostre parti, ma che vanta una presa sul reale ben più salda del nostro, in parte notevole ormai un magazzino di preconfenzionati per la tv.

Amalric è personaggio estroverso e di carica comunicativa irresistibile, e questo gli deve aver facilitato la penetrazione nel sancta sanctorum della bottega di Zorn. Oltre naturalmente ad una fede zorniana a prova di proiettile, testimoniata dal fatto che i documentari da lui dedicati al musicista americano sono ben tre: purtroppo ho perso i primi due, ma devo dire che il terzo vive di una vita tutta sua, e forse è il più intenso ed affascinante dei tre.

Amalric ha una cosa in comune con Maresco e Maccioni: è uno strenuo praticante del ‘close-up’. ‘Io non uso lo zoom, gli vado addosso’, afferma senza remore l’attore e cineasta francese. Ma mentre Maresco utilizza una troupe ridotta all’osso, ma nell’essenza convenzionale e professionale, il francese si proietta da solo nell’azione armato di una sola mini videocamera, girando sempre a mano, a getto continuo ed in tempo reale. Toccherà poi ai montatori in moviola sbozzare e selezionare: infatti Amalric ha grande considerazione di loro, facendo salti mortali per pagarli più dell’infima media in  uso nel settore.

Le prede della voracità voyeuristica di Amalric stavolta sono Zorn alle prese con la messa in scena del sua ambiziosa opera ‘Jumalattaret’ e Barbara Hannigan, la protagonista da lui scelta.

.ed ora è salita anche sul podio …

Zorn pensa in grande: la Hannigan è una vera ‘wonder woman’ della scena della musica contemporanea. Soprano dedicataria di opere di vari compositori, protagonista di una serie di prime esecuzioni mondiali, da ultimo è anche balzata sul podio bacchetta alla mano per cimentarsi nella direzione d’orchestra.

Eppure tanto personaggio, non appena ricevuta la partitura del lavoro zorniano, viene presa da una lunga serie di dubbi e di ansie circa la sua adeguatezza ad un ruolo così insolito ed in territori musicali per lei estranei: e già qui si intuisce la stoffa ed il talento di un’artista del tutto aliena da pose di prima donna, che dato il suo curriculum potrebbe viceversa ben permettersi.

Tutta la prima parte di ‘Zorn 3’ è una sorta di tormentoso romanzo epistolare che corre tra una Hannigan dubbiosa ed ansiosa ed uno Zorn suadente e persuasivo come il Serpente della Genesi.

Tanto suadente che ad un certo punto l’azione si sposta a Lisbona, in una sala prove della Fondazione Gubelkian, che ospiterà la prima dell’opera zorniana nel suo splendido auditorium affacciato su di un parco

L’Auditorium della Gubelkian: la sala ha 2.000 posti. Il Portogallo non è certo uno dei paesi più ricchi d’Europa…..non commento

Ed è qui che, lasciandosi alle spalle gli incoraggiamenti e le rassicurazioni generiche di Zorn, inizia il vero corpo a corpo della Hannigan con la partitura, coadiuvata dal validissimo ed instancabile Stephen Gosling che la accompagna al piano nella lettura e nella prova. Senza pudori ed orgogli la soprano segnala ed affronta tutti i passaggi più critici dell’opera, esemplificando i rischi per la sua esecuzione. Con la presenza di Zorn inizia un graduale ed assiduo lavoro di limatura e e riscrittura di molti passaggi, che pian piano perdono di astrattezza teorica per avvicinarsi via via ad una concreta eseguibilità.

Provando e riprovando….

E’ emozionante vedere come Amalric riesce a rendersi invisibile ed a cogliere questo momento cruciale della gestazione concreta della musica, che corre ancora su un filo sospeso sull’abisso, un momento in cui tutto è ancora possibile, il meglio come anche il peggio. E’ un momento ovviamente proibito al pubblico, in cui il cineasta ha potuto penetrare quasi inavvertito solo in forza di un atout personale che non vi rivelerò, spero lo scoprirete da soli a suo tempo.

Hannigan e Gosling a Spoleto per il Festival dei Due Mondi

Tra ansie, errori, riscritture, risate liberatorie e progressiva presa di fiducia si arriva alle inquadrature finali, dove la Hannigan entra in scena per la prima esecuzione, affrontando anche le difficoltà dell’interpretazione teatrale di una piece di ambientazione fantastica e mitologica.

Un documento sotto molti versi straordinario per tutti, imprescindibile per i fedeli zorniani, che con stupore di Amalric in Francia lo hanno voluto in programmazione nel circuito ordinario. Ma il nostro doveva rimaner ancor più meravigliato dalla recente richiesta di un produttore tedesco che intende distribuirlo insieme agli altri due ‘Zorn’ nella sale austriache e tedesche. Ed ai poveri zorniani italiani chi ci pensa? Altro sasso tirato nello stagno 😉 . Milton56

Per ora accontentiamoci del trailer francese: al termine alcune brevi sequenze dello ‘Zorn 3’, con il compositore e la Hannigan in azione a Lisbona

3 Comments

  1. Post scriptum. ‘Steve ed il Duca’. Solo ora mi rendo conto di aver lasciato in ombra un dettaglio importante: nel film si vedono solo brani della performance e dell’intervista (ma meglio sarebbe definirla conversazione) di Lacy. Si tratta di sequenze che provengono dall’archivio personale di Maresco: un assaggio che basta a far desiderare il documentario completo, però. Milton56

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  2. Grazie per la bella descrizione. Ero tra i pochi fortunati che hanno visto i quattro film. Mi unisco al tifo per il documentario completo di Maresco. Ma anche per Lovano Supreme(Presentato credo lo scorso anno al festival di Bergamo) e per rivedere Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz. Dubito invece per la proiezione dei doc di Zorn nelle sale…
    Curiosità: che titolo ha il romanzo sulla storia di Ellington a Palermo? Giuseppe

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    1. Cominciamo dalle cose pratiche. Il libro. Si tratta di Salvatore Buonadonna, “Quando Palermo sognò di essere Woodstock”. Si può trovare qui: https://www.ibs.it/quando-palermo-sogno-di-essere-libro-sergio-buonadonna/e/9788898865659
      La memoria mi tradisce, non è un romanzo, ma un memoir a più voci (alcune ora diventate illustri) sull’incredibile kermesse del 1970, Duke compreso. Occhio alla figura dell’impresario, un Joe Napoli che sembra uscito pari pari da un film di Scorsese. Giusto per capire in che mani era il grande show biz dei tempi d’oro .. 😉 . Rivedere questi film? Io ho più per speranze per gli Zorn, ovvimante si parla di approdo su qualche piattaforma od ulteriore passaggio in qualche altro Festival Jazz (anni fa JazzMi aveva un solido rapporto con Anteo di Milano, vera cattedrale del cinem,a dotata di gran quanità di sale, alcune delle quali perfette per la proiezione di film musicali… ulteriore messaggio in bottiglia). Il recupero del film di Maresco richiede veramente un personaggio alla Zev Feldman, il groviglio dei diritti deve eeser veramente ostico. Come mi sono permesso di dire a Maresco in call conference, sarebbe bello trovare qualche reperto video della permanenza di Lacy in Italia negli anni ’60: se RAI Teche fosse l’INA francesce sarebbe già cosa fatta, ma purtroppo è impresa ai limiti del possibile… Comunque sperare, fortemente sperare…. e fare lobbying. 😉 Milton56

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