Da tempo si assiste al fiorire nel mercato discografico di album che assomigliano un poco ai party degli anni ’70: quelli in cui non si sapeva chi fosse il padrone di casa, in cui gente entrava ed usciva a momenti senza sapere chi fosse, dove tutti parlavano con tutti infervoratamente, ma all’alba, una volta sfrattati dall’ospitale casa (ridotta nel frattempo ad un campo di battaglia), non ci si ricordava di cosa si fosse parlato e con chi.

Questi dischi appaiono da subito come compositi ed affollati; in essi le formazioni stabili del leader sono quasi sommerse da presenze di ospiti occasionali, interventi di poesia (a volte telefonati) o spoken world, segmenti di audio di strada o della vita quotidiana. Per tacere dell’utilizzo di elettroniche o suoni d’ambiente ottenibili in modo affidabile ed efficace solo in studio.
Inizialmente questi album multiformi e vari stuzzicano l’appetito dell’ascoltatore, ma a lungo andare diventano un poco frustranti. Infatti non c’è chi non veda che tutta questa abbondanza e varietà non può essere certo riprodotta dal vivo, soprattutto per noi poveri ascoltatori della provincia dell’Impero che ci rechiamo ad ascoltare gruppi in tournée internazionali e spesso con formazioni un poco occasionali .
È un male questo scarto tra la dimensione discografica e quella dal vivo? A mio parere sì.
In primo luogo c’è la frustrazione dell’ascoltatore di concerti che si trova di fronte la ‘versione povera’ di quello che si è ascoltato sui dischi: si inverte quindi quella aurea gerarchia di ascolto che metteva al primo posto l’esperienza live rispetto a quella dell’ascolto discografico.
Il raro acquirente che poi si è deciso a comprare l’album del musicista preferito si trova a constatare che quest’ultimo è spesso poco più del padrone dell’ospitale casa, più occupato in cucina con le vettovaglie che in salotto a dare il tono alla serata (o quantomeno a provarci).
Ma anche dal punto di vista dei musicisti ci sono degli svantaggi: battendo questa strada è sempre più evidente che siano sempre più rari album che fotografino la fisionomia di un gruppo nella sua forma più pura e che presentino la sua musica in forma concentrata e rifinita, affrancata dagli incerti e dalle incognite di ogni situazione di musica dal vivo.
Si vedono molto più di rado quegli album tesi, concentrati ed essenziali a cui quasi sempre era consegnata la fama e il ricordo di musicisti e gruppi del passato. Sembra quasi che il disco oggi sia diventato un punto di partenza anziché un punto di arrivo nella evoluzione della musica di un gruppo. E questo a mio avviso è un male: il ricordo dei più bei concerti si sfuoca rapidamente nella memoria della maggior parte degli ascoltatori, mentre un disco rimane sia come testimonianza della fase di un musicista, sia come mezzo della diffusione della sua influenza.
Insomma, il disco come mezzo anziché come fine. Ho una piccola personale spiegazione del fenomeno: oramai l’album è una sorta di biglietto da visita del musicista e della sua band, che spesso risulta più rivolto a produttori e organizzatori di concerti che non al pubblico. Il musicista intende mostrare tutto quello di cui è capace, tutte le risorse di collaborazione, le relazioni di cui è in grado di disporre, chiaramente nello sforzo di ampliare le sue occasioni di esibizione dal vivo. Mi viene un paragone un poco irriverente: sembra quasi di vedere quelle valigette che si portavano dietro i rappresentanti di commercio di una volta, nelle quali era raccolto il campionario dei prodotti da loro venduti. Uno strumento di promozione insomma.

In questa situazione la fisionomia dei gruppi tende a sbiadire ed a confondersi: effetto moltiplicato dalla instabilità e variabilità degli organici imposta o comunque favorita dall’attuale mercato musicale. Senza contare che talvolta la figura e il rilievo degli ospiti transitori dei dischi finiscono per mettere in secondo piano i preziosi sidemen della band, se non addirittura lo stesso leader. Bisogna poi tenere presente l’effetto destabilizzante di questo fenomeno sul repertorio, sul book del gruppo che viene sostanzialmente modificato per dare spazio agli ospiti, se non addirittura messo in naftalina per esigenze di cooperazione e di visibilità di questi ultimi.
Insomma, siamo davanti a un risultato finale di perdita o quantomeno diluizione della personalità del gruppo stabile: questo non può che acuire la sensazione di confusione e frammentarietà che viene dall’ascoltatore medio dall’osservazione dell’attuale scena musicale. Frammentarietà che non va certo a giovare alla riconoscibilità e personalità dei singoli musicisti e soprattutto dei gruppi che a loro fanno capo.
E in una musica che fa del collettivo la propria dimensione fondamentale tutto questo non sembra un bene. Senza contare che ci possono essere ulteriori ricadute sulla affezione dell’ascoltatore di lungo corso al prodotto disco che, invece di fornire una immagine quanto più precisa e a fuoco del suo musicista e del suo gruppo preferito, finisce per sembrare il video di un party destinato a durare una sola sera. Last but not least, questi ‘dischi – mondo’, oltre a non esser trasportabili sul palco, anche nella dimensione domestica richiedono un ascolto immersivo e dedicato sempre più raro nelle nostre giornate.
Ogni tanto non guasterebbe qualche pensiero in più per l’ascoltatore finale (entità ormai quasi mitologica), anche perché è lui che alla fine lava i piatti. E paga anche l’affitto. Milton56
A proposito di ‘album immersivi’, questo è un esempio notevole e recentissimo. Immanuel Wilkins ospita un bel gruppo di vocalists, tra cui spicca una Ganavya con cui occorre fare miglior conoscenza…

(gran bella musica) condivido il senso di disagio provato, una sorta di disillusione, mentre ascoltavo dal vivo un gruppo che in un album mi era molto piaciuto. Credo che le strade si stiano separando: da un lato il marketing e dall’altro la musica e il musicista. Parlo come ascoltatrice “finale”: se veramente ami la musica e quel musicista devi approfondire sempre la sua conoscenza, magari anche grazie a riviste come questa.
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