A volte, quando si ascolta un gigante dell’avanguardia di un tempo, è difficile capire cosa la rendesse così sorprendente. Un’avanguardia per definizione apre la strada agli imitatori, quindi alla fine le cose che un tempo la rendevano radicale ora sembrano convenzionali.
Cercare di trasmettere l’esperienza di ascoltare una qualsiasi composizione o esecuzione di Taylor, per non parlare dell’ampiezza del suo catalogo, è difficile. L’impressione iniziale è generalmente di caos. Questa non è musica che swinga. È musica che si agita, sussurra ed è in perenne movimento . È ludica e gioiosa e si estende su lunghi brani i cui stati d’animo cambiano frequentemente, a volte bruscamente e altre volte quasi impercettibilmente nel tempo.
Il lavoro di Taylor era profondamente radicato nel jazz, ma un ascoltatore alle prime armi potrebbe fare meglio a non compararlo attraverso la lente di registrazioni jazz più familiari, ma ad affrontarlo nei suoi termini come semplice musica: che ovviamente è, per definizione, rumore organizzato. Un altro modo di pensare alla musica di Taylor è immaginare una conversazione tra musicisti, a volte tenera e a volte un po’ bellicosa, ma che fluisce e rifluisce come tendendo a fare una conversazione di gruppo. In questo spirito, si potrebbe tentare un paragone letterario: Taylor come l’equivalente musicale di James Joyce.
Come Joyce, Taylor era un genio unico; come Joyce, non sembrava completamente formato ma scaturiva da una serie di influenze. Nel caso di Taylor, due influenze jazz distintive erano Duke Ellington e Thelonious Monk. Taylor suonò brani di entrambi sul suo primo, più convenzionale LP,
Jazz Advance nel 1956. Da Ellington, adottò un approccio che abbracciava tutte le capacità del pianoforte; da Monk, in particolare, apprese il potere del tempismo, della percussività e della dissonanza. In esibizioni a metà carriera come
Silent Tongues , un barlume di stride piano in stile Fats Waller brillerà occasionalmente, per poi svanire, sorridendo, di nuovo nel fermento della musica.
Un brano come ” Charge ‘Em Blues ” da Jazz Advance è utile per comprendere la forma larvale di Taylor come improvvisatore e compositore influenzato da Monk, prima di raggiungere il suo pieno potenziale come musicista.Nel giro di qualche anno, Taylor stava creando musica a mondi di distanza da quella. “Non erano la tecnica e il feeling del jazz che Taylor stava rifiutando, solo la sua forma: la canzone da 32 battute, la progressione tema-assolo-tema”, scrive Ben Ratliff .
Unit Structures di Taylor del 1966 ha il personale di un combo jazz standard: pianoforte, basso, batteria e sassofoni. Non suona per niente come un combo jazz standard. Gli strumenti si fermano e ripartono, intrecciando frammenti di melodia. Spesso non c’è un ritmo costante, con la batteria che fornisce le percussioni ma non il ritmo, consentendo al batterista di sfuggire al ruolo di cronometrista e di fungere da membro a pieno titolo e improvvisatore dell’ensemble. In un certo senso, la musica sembra più collegata al jazz dixieland, con una raffica polifonica di musicisti che combinano i loro suoni per creare un insieme più grande, rispetto alla struttura più familiare dello swing e del bebop successivi, in cui un solista suona mentre una sezione ritmica lo accompagna.
Un altro modo per cogliere la prodigiosa intenzionalità, così come la grande gioia, in gioco nella musica di Taylor è guardare un’esibizione di pianoforte solo. Si percepisce la fisicità di Taylor , ma anche la cura che mette; le decisioni che prende nel produrre la musica, ben lungi dal clangore casuale sulla tastiera; e la gamma di suoni e toni che riesce a ricavare da un pianoforte. La musica può sembrare folle, ma non è mai casuale. Un concerto del 1984 offre anche un assaggio della recitazione di poesie di Taylor, che dà il via all’esibizione.
Comprendere veramente le strutture che sostengono la musica di Taylor è un lavoro di anni, e solo per gli ascoltatori più sofisticati. Non posso fingere di capirlo, o di dominare tutta la sua opera. La buona notizia è che non ce n’è bisogno. Con tutto il rispetto per i suggerimenti di Taylor che gli ascoltatori si preparino prima di consumare la sua musica, la cosa migliore è semplicemente ascoltare. Taylor lascia dietro di sé un formidabile corpus di opere, ma l’ascolto non deve essere proibitivo.
Interessanti infine le reazioni di Keith Jarret a una serie di dischi sottopostigli da Jean-Louis Ginibre in un “blindfold test”. A proposito di Cecil Taylor, sono reazioni piuttosto clamorose per venire da un pianista della giovane avanguardia. “Non ci ho sentito dentro dell’amore: si direbbe una improvvisazione classica con un cattivo accompagnamento jazz… Ciò che amo in Cecil Taylor, è la sua energia. Deve sentir qualcosa di importante per dispiegare, ogni volta che suona, tanta energia. Non lo si fa per qualcosa in cui non si creda.
Amo Cecil per questa ragione, ma personalmente non penso che abbia mai suonato del jazz. Credo che abbia tentato per tutta la vita e che tenti ancora: forse è questo a fargli spendere tanta energia! Ma per me non è un musicista di jazz. Ha d’intorno un’aureola duplice di jazzman e di pianista originale, ma nel suo stile non sento alcun jazz. Anzi, mi par di sentire proprio l’opposto. Non è dell’odio, penso, perchè non si può gridare il proprio odio su un pianoforte per tutta la vita. In ogni caso è qualcosa di negativo”CARTA STAMPATA a cura di Gian Mario Maletto
(MusicaJazz maggio 1970)

Chuck Fishman – Cecil Taylor and Jimmy Carter on the South Lawn of the White House
Washington DC, June 18, 1978
Considerate la reazione di un altro ascoltatore: Jimmy Carter. Nel 1978, il presidente, non noto come un ascoltatore di jazz particolarmente sofisticato, organizzò un festival jazz alla Casa Bianca. La maggior parte del programma era ragionevolmente mainstream, anche se molto vario nello stile (Sonny Rollins, Stan Getz, Clark Terry, Chick Corea), ma includeva anche Taylor, che deve aver avuto difficoltà a infilare la sua musica espansiva nello spazio obbligatorio di cinque minuti. La musica era tutt’altro che banale, ma l’uomo di Plains era sbalordito.
“Dopo che l’ultima nota si era spenta, Jimmy Carter balzò in piedi dall’erba e corse verso Cecil; gli uomini dei servizi segreti si affrettarono a tenere il passo”, ricordò in seguito il promotore George Wein, che organizzò lo spettacolo . “Il presidente prese le due mani del pianista nelle sue, guardandole con stupore e timore reverenziale. ‘Non ho mai visto nessuno suonare il pianoforte in quel modo’, si meravigliò”.
Carter chiese se il pianista classico Vladimir Horowitz avesse ascoltato Taylor. Taylor ha risposto che ne dubitava. “Sai che è stato qui. Dovrebbe sentirti. Come hai imparato a farlo?”. Chiese Carter. “Diavolo, lo faccio da 35 anni” rispose Taylor.
Foto di copertina Cecil Taylor by Andrew Putler
https://www.youtube.com/watch?v=Zn3hx6diwW4&t=8s

Mah, sinceramente mi risulta oscuro cosa possa esserci di ‘ludico’ e ‘gioioso’ nella musica di Taylor, che certo è molte cose, ma non sicuramente ‘caos’: al contrario, forse pecca per eccesso di intenzionalità e controllo intellettuale. Più azzeccata è l’intuizione che collega gli ensemble tayloriani alla polifonia dixieland, un ricordo ancestrale che ricorre nel jazz di ricerca degli anni ’60. Un altro colpo a segno dell’autore (che non riesco bene ad identificare, riesce difficile così contestualizzare le sue affermazioni) è quello della ‘fisicità’ della musica tayloriana: nell’unica, lontana occasione in cui l’ho ascoltato dal vivo ho riportato la forte impresssione che il suo impatto fisico è decisivo per la sua comprensione da parte del pubblico. Purtroppo questa ‘esperienza fisica’ è pressocchè impossibile da trasmettere attraverso le registrazioni discografiche e l’ascolto domestico, e questo è un serio limite di questa musica. Negli ultimi anni anche Taylor ha ceduto alle sirene della ‘corsa verso la solitudine assoluta’, cosa che ha fatto di lui un grande isolato, sostanzialmente senza eredi ed influenza successiva: grande sì nella sua individualità, ma sostanzialmente una via senza uscita nella grande città della musica afroamericana. My five cents, come sempre. Milton56
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Quanto agli ‘eclatanti’ commenti di Jarrett, personalmente mi meravigliano molto poco: l’approccio di Keith alla musica è lontanissimo, per non dire diametralmente opposto, a quello di Taylor. Lo ‘scandalo’ è dovuto all’interferenza del concetto di ‘avanguardia’, molto in voga nel 1970, ma nel frattempo malamente invecchiato: nel panorama successivo è più un problema che una risorsa dopo la grande diaspora degli anni ’80, di cui Jarrett è stato uno dei protagonisti. Un’ultimaa battuta: Jimmy Carter, abusivamente ricordato come un uomo ingenuo e naif, era ed è un sincero appassionato di musica. Tra l’altro credo che ben pochi suoi colleghi si siano presi la briga di invitare il mondo del jazz alla Casa Bianca, gesto molto significativo sul piano culturale ed anche politico. L’unico presidente americano degli ultimi decenni da cui mi sarei fidato a comprare un’auto usata ;-). Milton56
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