CARTOLINE – SOTTO LA MOLE – OTTONI ED ANCE

Ancora una pagina di istantanee torinesi, e questa volta ci spostiamo sui fiati.

Non appena ho visto in cartellone ‘Nexus plays Dolphy’ non ho avuto un momento di esitazione nel comprare i biglietti: prima di tutto chiunque metta mano all’ardua eredità di Eric merita speciale rispetto ed attenzione, sono veramente molto pochi. Ad oltre 60 anni dalla tragica e prematura scomparsa, quello di Dolphy continua ad essere un ‘sentiero interrotto’ in tutti i sensi.

Non sempre si ricorda l’Eric grande flautista, quello dell’iridescente ‘flauto ipersoffiato’, quello che suscitò l’ammirazione del virtuoso Severino Gazzelloni. Prontamente ricambiato con ‘Gazzelloni’, che spicca nella track list di ‘Out to Lunch’

Non a caso vi avevamo evidenziato a fine anno la notevole e direi anche coraggiosa produzione di Red Records: la tentazione di verificare la tenuta sul palco dell’impresa era già forte, ma la curiosità si è ancor più acuita nel notare che la formazione era sensibilmente diversa da quella del disco.

Certo erano ancora in campo Tiziano Tononi alla batteria (portavoce e direi forse l’eminenza grigia del progetto), Daniele Cavallanti al sax tenore (altra anima dei Nexus), Alessandro Castelli al trombone, Emanuele Parrini al violino, Luca Gusella al vibrafono ed Andrea Grossi al basso.

Ma mancava il sax alto di Achille Succi. E’ ben vero che i Nexus non puntano ad una mimesi della musica dolphiana, ma cambiare voce al sassofono in un contesto del genere non è cosa da poco. Soprattutto se il nuovo arrivato è il sax soprano di Roberto Ottaviano.

Oltre ad una voce strumentale inedita per il mondo dolphiano, Ottaviano certamente fa sue certe angolosità scoscese di Eric, ma porta anche in dote un fraseggio più ampio e disteso, una sfumatura di lirismo che introduce una bella nota di dialettico contrasto nella serrata tessitura polifonica del gruppo.

Frizzante e sorprendente ancora oggi….

Una trama fitta e stretta certo, ma non tale da soffocare voci individuali ben distinte: come l’agile vibrafono di Gusella, che aveva l’ingrato compito di misurarsi con il fantasma di Bobby Hutcherson che con il suo metallo scintillante ha marcato indelebilmente l’impresa di ‘Out to Lunch’, il folgorante esordio del leader Eric ed insieme il suo canto del cigno.

Ma un’altra voce che ha lasciato il segno è stata quella di Emanuele Parrini. E sia per l’originalità dell’inserimento del violino nel mondo musicale dolphiano, che perché in genere questo strumento non ha avuto vita facilissima nel più ampio ambito della musica afroamericana. Ma il formidabile Parrini non è un violinista che suona jazz, ma un jazzista che suona il violino, anzi talvolta lo ‘usa’, come quando lo pizzica senza archetto a mo’ di un sofisticato ukulele. In un gruppo già dinamico e scattante, lo strumento di Parrini spicca per il suo travolgente slancio e la potenza del suo suono: memorabile un suo solo alla fine del quale il nostro deve forzatamente passare la mano perché ha letteralmente distrutto l’archetto, con seguito di sostituzione ‘in volo’ del crine completamente sbrindellato.

Il pubblico che ha riempito il bel Teatro dei Ragazzi (una bella e funzionale struttura che ha l’unico difetto di esser un po’ fuori mano; ma quanti begli spazi per la musica in questa Torino…) è stato premiato con una performance vitale e scintillante, che non aveva nulla del ‘tributo’ accademico e rituale. Speriamo che tra gli ascoltatori siano in molti a ripercorrere direttamente il ‘sentiero interrotto’ di Eric, un percorso ancora denso di meraviglie inesplorate.   

E una volta tanto ecco una clip del concerto dei Nexus. L’arrembante violino di Parrini in bella evidenza

Anche se la musica per fiati francese rientra a pieno titolo nel DNA del jazz delle origini, che ha mosso i primi passi assemblando gli strumenti abbandonati nel Sud dalle bande militari della guerra di Secessione, proporre un’organico di soli ottoni non è cosa facile nel jazz, soprattutto alle nostre latitudini.

Questa scelta, oltre ad implicare un certo coraggio, richiede molta cura nell’arrangiamento, che certo non è mancata a Cristiano Arcelli ed ai suoi Koro Almost Brass. “Due musicisti colti (Giovanni Maier al corno e Glauco Benedetti alla tuba) e tre incolti (Arcelli al sax alto, Massimo Morganti al trombone e Mirco Rubegni alla tromba)”, come ha ironicamente sintetizzato Arcelli, brillante e didattico conduttore del pomeriggio al fascinoso Teatro Juvarra.

Lotte Lenya canta ‘Alabama Song’ senza sapere una sola parola di inglese. E’ il 1930, mancano tre anni alla catastrofe, ma il ‘Nosferatu’ di Murnau e “M – Il Mostro di Dusseldorf” di Lang l’hanno già presentita..

L’originalità della proposta è stato poi acuita da un’ottima idea: rispolverare la musica di Kurt Weill, un uomo dalle molte vite. Nato compositore accademico, migra negli inquieti cabaret espressionisti della Repubblica di Weimar, dona atmosfere indimenticabili alle più graffianti opere teatrali di Bertold Brecht, profugo negli States finisce per diventare infaticabile fornitore di celebri e raffinati songs ad Hollywood e per questo tramite finisce per diventare inesauribile fonte di ispirazione per i jazzisti di ogni epoca e tendenza.

A Kurt il sulfureo Jim Morrison sarebbe piaciuto senz’altro: sono in due ad aver sentito per primi la terra che trema sotto i piedi. Jim ora abita con buon titolo al parigino Pere Lachaise, in compagnia di Oscar Wilde, Proust, Balzac, Modigliani, Maria Callas ….   

Ad ulteriore conferma della pervasività della poliedrica opera di Weill si aggiunge il fatto che Arcelli a lui ci è arrivato tramite la celebre versione di “Alabama Song” dei Doors: quasi una interpretazione autentica, del resto Jim Morrison non avrebbe minimamente sfigurato in un kabarett berlinese degli ultimi anni ’20. Con un filo di ironia e parecchia dottrina Arcelli ci ha guidato un piccolo tour nel mondo complesso ed avventuroso di Weil, seguendone le tappe di uno straordinario viaggio musicale.

Anche il prezioso ‘Speak Low” è passato per mille mani jazzistiche: qui una versione con pochi eguali, notare chi se ne è impadronito…Potevano farselo scappare i Koro?

Il gruppo è molto ben articolato, con una accurata distribuzione delle parti solistiche che non penalizza nemmeno strumenti indocili ed ‘esotici’ per il jazz come il corno di Mayer e la tuba di Benedetti: entrambi non sono nuovi ad incursioni nei territori jazzistici e questo spiega l’agilità e la disinvoltura con sui si sono disimpegnati nei loro soli.

“Mack the Knife”, addirittura un intero disco dedicato agli ‘hits’ di Kurt da un Sextet Orchestra USA in cui spiccano John Lewis ed Eric Dolphy….

I raffinati arrangiamenti dei Koro puntano molto su polifonia e contrappunti, cosa piuttosto rara di questi tempi quando invece organici anche articolati vengono sfruttati solo per la loro varietà timbrica in unisoni e ‘tutti’ abbastanza piatti e monocordi.

‘My Ship’, 1957. Al timone Miles al flicorno e Gil Evans con uno dei suoi più raffinati ensembles. Anche Arcelli & Co. sono saliti a bordo.

I Koro rendono bene la complessità e finezza di questa musica, non mancando di sottolineare la sua genetica inclinazione verso un jazz dal lirismo ironico e con sfumature blues.

‘The Stranger’, 1960. Una piccola rarità: un alternate take dalla sessione del ‘Mack the Knife’ di cui sopra. Oltre a Lewis e Dolphy, sono della partita Benny Golson, Gunther Schuller e Jim Hall: mi sembra che bastino

Il solo pelo nell’uovo è la mancanza di un filo di ferocia espressionista, che quasi sempre serpeggiava nelle partiture di Weill, e che molti jazzisti non hanno mancato di cogliere, come si vede da alcune delle clips precedenti. Per tacer del poeta maledetto Morrison. Ma forse nelle orecchie del vostro cronista echeggia ancora il Weill acido e corrosivo che accompagnava gli storici allestimenti brechtiani di Giorgio Strehler e del suo Piccolo Teatro.

La Jenny dei Pirati di Milva, 1971. Non è il Piccolo, ma la RAI in prima serata, incredibile ma vero

 Sperando di avervi un poco ingolosito, purtroppo non sono in grado di farvi ascoltare nulla del raffinato Weill dei Koro, che peraltro hanno in imminenete uscita un album monkiano, che compendia molto precedente lavoro sul palco. Ed anche il ‘Mad Monk’ ha i suoi spigoli e bordi taglienti, o no? Milton56

I Koro Amost Brass, su  ‘Rhythm a Ning’. Formazione lievemente rimaneggiata con Fullvio Sigurtà alla tromba

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