L’insostenibile leggerezza dei festival jazz

In tempi non sospetti l’allarme era già stato dato da Franco Fayenz e Gerlando Gatto: inutile illudersi, nonostante le centinaia di cosiddetti festival jazz che nei mesi estivi si svolgono nel nostro paese, la effettiva qualità ed attinenza alla parola “jazz” sono del tutto rivedibili. Spesso il termine viene utilizzato per dare una sorta di patente di rispettabilità e credibilità artistica, quando poi, alla lettura dei programmi, la maschera casca impietosamente.

Basta sfogliare le pagine social o una rassegna stampa aggiornata per leggere nomi che, a seconda dell’umore di chi legge, fanno sorridere, sghignazzare increduli o incazzare lanciando moccoli e parolacce. Non farò nessun nome, i colpevoli e i complici li potete scovare facilmente, i più addentro li conoscono benissimo senza nemmeno bisogno di indagare. Si pagano anni di “edonismo reganiano” per usare termini un tempo di moda: scomparsa dai palinsesti di radio e televisioni la musica jazz arranca, relegata in spazi angusti e sempre più contesi. Chiusi in una riserva, alla stregua di Apache e Navajos, anche gli appassionati patiscono la scomparsa di spazi e festival a loro veramente dedicati.

Non bastasse che si tratta di una musica appannaggio di una ristretta minoranza, con cifre di vendita irrisorie, nella maggioranza dei cartelloni estivi proposti è avvenuta una “sostituzione etnica”, per dirla alla moda vannacciana: il pubblico è perlopiù ben poco acculturato musicalmente, è pigro e maldisposto al nuovo, men che meno se si richiede attenzione e conoscenza. Fatti confermati da un addetto ai lavori, un amico con il quale ogni tanto si scambiano pareri e che, a tal proposito mi scrive cosi’: “…da molti anni, forse troppi, un cambiamento è in atto. E il jazz, a volte, è anche intrattenimento o una musica al servizio di un territorio. Allo stesso tempo, sono sicuro che al giorno d’oggi, il jazz, così come un certo tipo di Festival, sia oggi impossibile proporlo.”

In poche righe si certifica la mutazione, intrattenimento a servizio del territorio. E quindi degli sponsor, politici o commerciali, che di cultura se ne intendono come Pappagone ma che di presenze e bilanci fanno una religione. Il fenomeno non è solo italiano, da fedele lettore di Jazz Magazine potrei raccontare lo stesso tipo di storia. Festival storici dove sono transitati i grandi della nostra musica ora fanno serate di salsa o altri intingoli non meno prelibati per un pubblico ignaro ma entusiasta. Senza nulla togliere a salsa e derivati solanacei, un clamoroso salto nel nulla.

Concludo confutando, almeno in parte, l’affermazione che un certo tipo di festival sia oggi improponibile. Non è vero, o perlomeno, dove il terreno è stato dissodato è possibile. Lo scorso anno in un solo giorno il Lingotto a Torino ha visto il tutto esaurito per Roscoe Mitchell nel pomeriggio e per John Zorn la sera. A Novara , dove le proposte non sono per gualazziani convinti, il pubblico ha sempre dato una congrua risposta. A Saalfelden, festival austriaco che frequento da tempo, il tutto esaurito è di prassi. C’è solo una connotazione negativa nei festival di tendenza: l’età media del pubblico, inesorabile segnale del tempo che passa e del ricambio generazionale che manca. Ma qui si aprirebbe un discorso che inevitabilmente ci porterebbe molto lontano. Per ora tenete d’occhio i programmi e…fatevi una risata, magari con un bicchiere di quello buono.

1 Comment

  1. Come dici tu, il jazz continua a essere un genere musicale dinamico e in continua evoluzione, con nuovi sottogeneri e fusioni con altri stili. Sebbene il jazz si sia evoluto notevolmente dalle sue origini, rimane un genere apprezzato per la sua improvvisazione, il suo swing e la sua capacità di entrare in sintonia con il pubblico. È un peccato che ci siano persone che cercano di approfittare della scarsa conoscenza del vero jazz per trarne profitto. Ho apprezzato molto il tuo post.

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