CARTOLINE – LA PERLA DELL’ESTATE

Una delle rare copertine che assomigliano alla loro musica

Tirando le somme, è stata un’estate piuttosto densa di ascolti interessanti e stimolanti, alcuni di più ed altri un poco meno, come vi ho raccontato nelle precedenti ‘cartoline’.

Ma quando ci si volta indietro per uno sguardo retrospettivo, ci si rende immediatamente conto che c’è qualcosa che si staglia nettamente sull’orizzonte, sovrastando ed anche un poco oscurando il resto. L’anno scorso era stata The Secret Society di Darcy James Argue, quest’anno senza alcuna esitazione la ‘perla dell’Estate’ per me è stato l’ Honey from Winter Stone di Ambrose Akinmusire a Perugia.

Ambrose Akinmusire

A fare da battistrada alla tourneè europea era stato l’omonimo album arrivato in primavera: un lavoro denso ed affascinante, molto complesso e meditato. Ma l’impatto del gruppo dal vivo è stato di una forza del tutto inaspettata e sorprendente.

Iniziamo con il dire che portare sul palco un organismo musicale così articolato come quello concepito da Akinmusire non è impresa di poco conto: onore quindi al Festival di Pisa, a Summertime di Roma ed alla “Altra Umbria Jazz” del Morlacchi di Perugia che si sono federati in una produzione impegnativa e capace di richiamo essenzialmente su di un settore di pubblico alquanto ben informato (Akinmusire è musicista di solida reputazione, ma non certo graziato da un marcato carisma personale). La metà vuota del bicchiere è che si tratta di esperienza difficilmente replicabile soprattutto in questi tempi tribolati, e quindi ahimè con ogni probabilità rimarrà  tesoro solo degli spettatori dei tre concerti italiani.

Un primo colpo d’occhio sulla platea del Morlacchi ha subito rivelato un ‘pubblico delle grandi occasioni’: la solita schiera di appassionati di lungo corso, una qualificata pattuglia di critici ed organizzatori musicali ed infine una sorprendente aliquota di ‘thirty-something’ accorsi seguendo chissà quale misteriosa pista.

Oltre ad Akinmusire alla tromba (ma ha messo mano anche a qualche oggetto elettronico) era presente al gran completo il suo rodatissimo quartetto con Sam Harris al piano e tastiere, Reggie Washington al basso elettrico e Justin Brown alla batteria. Al centro c’è Kokayi, che per adesso definiamo semplicemente un vocalist, più oltre bisognerà aggiustare meglio il tiro per definirlo. Infine, alla destra ci sono gli archi del Mivos Quartet, che già abbiamo visto in azione al fianco della Mary Halvorson di ‘Belladonna’.     

Un organico quantomai complesso ed eterogeneo, come si vede, che potrebbe far temere equilibri precari mantenuti solo a prezzo del rigido controllo che si è notato in rare occasioni analoghe.

Brano d’apertura dell’album, mi raccomando, ascoltatelo tutto…

Ed invece il concerto parte subito di slancio, immergendoci fluidamente nel mondo lirico, accorato e trepidante tipico di Ambrose, ma qui proiettato su una scala di colori e toni straordinariamente più ampia e ricca.  Una densa, ma breve introduzione del tema da parte della tromba scura e sfumata del leader, e poi si affaccia sulla scena Kokayi. Dimenticate il rapper energico ed incalzante ascoltato nei Five Elements di Steve Coleman: qui invece ci appare una figura cresciuta a tutto tondo, un vero interprete capace di guidare e trascinare il complesso ensemble con serrate, ma musicalissime e travolgenti improvvisazioni verbali: certo, progressivamente si affaccia anche l’incalzante ed ondulatorio ritmo del rap, ma associato ad un abbandono e ad una elasticità lirica del tutto inediti. Tra l’altro la dizione rimane chiara e scandita anche nei momenti più densi e convulsi, si tende decisamente verso il canto pieno e disteso. La sicurezza e lo slancio di Kokayi lo trasformano in breve nella guida carismatica che strega la platea: dopo pochi minuti i ‘thirty – something’ sono già fuori controllo, ma anche uno studioso di chiara fama seduto davanti a me si agita vistosamente sulla poltrona.

Kokayi, il Carismatico. Bello scatto di Laurent Poiget

“Ed il leader sul cartellone?”, direte voi. Akinmusire si ritaglia pochi e parchi interventi solistici, ma sempre intensamente espressivi ed autorevoli: pur nella loro concisione rappresentano l’ago della bussola che orienta il viaggio del composito gruppo. Rispetto al passato ritroviamo il suo noto timbro brunito, la laconicità, la predilezione per i registri medi ed il suono sfumato, ma ora c’è un’urgenza, e spesso un’agilità graffiante che non gli conoscevamo. Memorabili sono dei riffs, spesso delle singole note ribattute che suonano come segnali ansiosi ed angosciati che connotano indelebilmente tutto il tessuto orchestrale, perché qui siamo proprio in questa dimensione. E’ stato detto spesso ed un poco superficialmente di altri, ma la concentrazione sul suono, il gioco sui silenzi, l’intensa essenzialità fanno intravedere in questo Akinmusire un figlio spirituale dell’ultimo e miglior Miles Davis ‘elettrico’.

Il dinamismo e la straordinaria coesione dell’ensemble sono molto debitori verso Sam Harris: in passato ho molto ammirato il suo pianismo essenziale e contrastato nel quartetto di Ambrose, ma qui il suo ruolo è soprattutto quello di grande tessitore della fitta e variegata trama di gruppo: molto di questo lavoro è fatto tra le quinte servendosi abilmente di tastiere ed elettroniche decisive per i colori cangianti ed iridescenti caratteristici dell’Honey. Non passano comunque inosservate delle brevi, incisive e dinamiche sortite al piano acustico.

Una ritmica inesorabile…

Non basterebbe il pur carismatico Kookaji a dar conto dell’impatto travolgente e coinvolgente di Honey from the Winter Stone: a far contrasto con la raffinata trama della front line viene l’energico e pulsante basso di Reggie Washington (da incorniciare un suo lungo assolo), perfetta la scelta dello strumento elettrico usato con misura asciutta.  A completare una rimica determinata e sempre in evidenza viene Justin Brown con il suo drumming incalzante ed imperioso, nitidamente scandito. Ancora un altro batterista di grande personalità ed autorevolezza che domina il palco del Morlacchi di quest’anno.

Ma la creatura di Akinmusire non avrebbe la sua costante tonalità calda, vibrante ed inquieta senza il quartetto Mivos. L’inserimento degli archi nell’ordito di un gruppo jazz è sempre stato cosa critica e problematica, pochissimi gli esempi felici che si librassero al di sopra dell’enfasi solennizzante e descrittiva o di un intellettualismo piuttosto arido. Il Mivos non esegue, e nemmeno interpreta uno spartito sul leggio: è un agile e scattante solista collettivo, capace di inserimenti dal timing perfetto anche negli improvvisi e bruschi cambi di passo dell’ensemble, tiene botta con scioltezza e leggerezza anche nei passaggi d’insieme più caldi e tesi. Insomma è inconfondibilmente ‘americano’, ha swing .

Come vedete, anche stavolta non è stato possibile trovare una clip che ritraesse gli Honey dal vivo: ho sopperito con clips dall’ottimo album, sofisticato e basato su sottili equilibri. Si tratta di un ascolto molto affascinante e stimolante, ma dai tempi della sua registrazione in studio (2023) molta acqua è passata sotto i ponti. E si tratta di acqua agitata e tempestosa. La musica di Akinmusire è sempre stata un sismografo sensibile alle scosse del mondo: ma sul palco del Morlacchi il pennino è andato fuori scala inviandoci un segnale allarmato e spesso angosciato  sul suo stato. Dopo  un autentico trionfo finale, tutti usciamo dal teatro con la netta coscienza che la terra trema sotto di noi. E musica come quella di Honey continua a ricordarcelo, e non da ora. Milton56

Ed eccolo alla ribalta il Mivos, il quartetto swing…

2 Comments

  1. Ho avuto la fortuna di assistere sia al concerto da noi alla Casa del Jazz la sera precedente che a quello di Perugia.La sensazione in entrambe le serate è stata di assistere ad un concerto profondamente importante.Di quelli che lasciano il segno nei giorni,settimane,mesi a venire.Il fatto di vedere, sia a Roma che a Perugia, occhi lucidi in molti spettatori al termine del concerto conferma anche l’impatto emozionale che questa musica è capace di suscitare.Ambrose, a fine serata a Perugia, si schermiva con modestia e dolci sorrisi ai miei sinceri complimenti per il suo capolavoro.

    Piace a 1 persona

    1. Grazie del contributo, Luciano. Per ragioni di brevità ho appena accennato all’accoglienza del pubblico, che è stata caldissima in tutte le sue diverse componenti, lo si notava dai capannelli in fermento all’uscita. Quanto ad Ambrose, giusto per completare il tuo ritratto ricordo che in una rara pausa della performance, ha voluto ricordare il suo debutto internazionale avvenuto proprio ad Umbria Jazz, credo nel 2010 o 2011 (tentai invano di imbucarmi alla conferenza stampa organizzata da Blue Note per presentarlo in Europa). Dettaglio significativo, considerato che l’uomo oltre ad esser modesto è anche di poche parole (almeno sul palco). Sarebbe bello rivederlo più spesso dalle nostre parti, negli ultimi anni ci è un poco mancato….. Milton56

      Piace a 1 persona

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.