Si è conclusa domenica la prima parte del Jazz Festival MINERVA MUSICAE che tornerà ad accendere il palco Giovedi 24 Luglio con un doppio concerto che vedrà l’intrigante proposta del chitarrista Luigi Masciari (“Somewhere in My Mind“, uno dei migliori dischi del 2024) e il ritorno sulle scene di Piero Bassini, una gloria pianistica nazionale con il suo Trio e la sua poesia.

La rassegna è partita con il concerto di Alessandro Lanzoni Trio plus Francesco Cafiso, una band che ha proposto in larga parte materiale tratto da “Reverse Motion” (Jam/Unjam ’24), disco che ha visto l’abbrivio per una band che si è poi rodata con una buona serie di concerti e che ad avviso di chi scrive meriterebbe scritture anche oltre i confini nazionali. Il fidato trio del fiorentino Lanzoni trova in Cafiso uno spettacolare interprete, con il suo bop limpidissimo e gli arabeschi di grande fattura che ben conosciamo, ideali per mandare in orbita il set. Peraltro il concerto manerbese è stato teatro di una “prima” perchè Matteo Bortone s’è portato il basso elettrico mentre Alessandro Lanzoni ha suonato un mini organo B3 accanto al pianoforte, così da sperimentare un “Electric Reverse Motion” che è parso divertire molto la band, oltre al pubblico (più di 200 persone) che ha tributato una calorosa accoglienza a brani complessi ma sempre cantabili, come apprezzato in “Duke Clouds“, uno degli zenith del concerto, esposto in una lunga versione.

Tutto il concerto si è mosso con repentini avanti e indietro nella storia del jazz, del quale i quattro sono cultori sapienti, soluzioni avanzate e sviluppi canonici si sono alternati con naturalezza, il suono churchy dell’hammond è stato utilizzato anche in modo poco convenzionale, il gruppo è sembrato navigare felice in questa dimensione elettrica che dona una veste nuova ai brani del disco. Si sono apprezzate le sofisticate nuance latine di “Mad Bog” (brano di Lanzoni che riferisce di un volo Madrid – Bogotà) mentre speriamo che l’angolare gloria bop di “Arturo’s Bull“, dedicato da Cafiso allo scultore Arturo di Modica realizzatore del celebre Toro di Wall Street, sia di viatico ai nostri personali borsini azionari. “No Hay Bando“, composizione firmata dal batterista Enrico Morello, a testimonianza di una democratica visione d’insieme del gruppo, ha scatenato i quattro nel finale di concerto. Richiamati per un bis si è optato per un blues meraviglioso di Clifford Brown, “Sandu“, che ha funzionato come perfetta ciliegina sulla torta.

Sabato 19 luglio è toccato alla Mike Stern Band, per un concerto che dopo un lungo, snervante gioco d’attesa con le mutevoli condizioni atmosferiche si è tenuto all’aperto, nell’oasi naturale dell’Isola di San Biagio, che ogni bresciano chiama da sempre Isola dei Conigli. Biglietti esauriti da settimane e frotte di jazz-fans felici sui battelli messi a disposizione dall’organizzazione che con puntualità svizzera li ha portati nell’incanto notturno dell’isoletta pronta ad accogliere il suono inconfondibile di un chitarrista che, lo diciamo subito, sembra essere amato oggi ancora più di un tempo. Certo, magari qualche capello s’è imbiancato (eufemismo) ma c’erano anche molti giovani, chitarristi in erba e varia umanità in estasi, insomma potremmo dire che “Fusion’s Not Dead!”, parafrasando il giusto. Il concerto è partito con lo spotlight puntato sulla consorte Leni, che ha imbracciato lo ‘ngoni, strumento africano ricavato da una zucca, e cantato la sua “Like a Thief“, un’apertura world suggestiva, con cui la band ha settato i livelli preparandosi al successivo tour de force, dieci minuti di “Connections” con picchi di velocità sterniana e drive tellurici. Il brano apre l’ultimo disco, il celebrato “Echoes and other songs”, di fatto un doppio album che è stato ampiamente saccheggiato, con la ritmica Jimmy Haslip / Dennis Chambers a girare a mille e con il potente tenore di Bob Franceschini a sollevare il leader da incombenze solistiche, doppiandone le frasi, inanellando chorus su chorus di robusta precisione (“Echoes”), dimostrando tecnica eccelsa in un contesto che richiede anzitutto potenza d’emissione. “Gospel Song” ha rappresentato uno dei momenti più dolci del concerto, una ballad che ai tempi belli sarebbe stata un fantastica hit radiofonica notturna, e che Stern ha cesellato con grazia, raggiunto nel finale dal calore del sax di Franceschini. Come ultimo brano in scaletta, ignorando le richieste del pubblico (qualcuno invocava “Chromazone” a gran voce), siamo finiti catapultati in un rovente blues hendrixiano, “Red House”, cantato con trasporto dal leader e poi sviluppato in ampiezza da una band che aveva mollato gli ormeggi da tempo e ora intravedeva la riva. Finale thrilling con la band che torna sul palco tra le ovazioni, Mike che annuncia un succoso bis (“Jean Pierre” del sommo Miles!) ma ecco che un amplificatore si mette a fare le bizze e allora niente da fare, Mike se ne va, saluti e baci. Dopo il concerto l’affetto ha quasi travolto Stern che, seppur visibilmente stanco, ha firmato dischi, magliette, chitarre, concedendosi a una lunga serie di foto e chiacchierate con i fans. L’ultima cosa che gli ho sentito dire nel buio è stata “Hey guy….our boat is leaving!” al placido Dennis Chambers che se la stava prendendo un po’ troppo comoda.
Del concerto di domenica, della splendida Camille Bertault, vi diremo in seguito, stay tuned…
