Trenta secondi di pura bellezza

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Era il cinque dicembre del cinquantasette.
Sugli schermi americani andava in onda un programma intitolato “The Sound of Jazz”. La rete televisiva CBS aveva messo insieme un cast di giganti: Ben Webster, Lester Young, Gerry Mulligan, Roy Eldrige, Coleman Hawkins, Count Basie, Pee Wee Russell, Thelonious Monk, Mal Waldron. Una sfilata di leggende.
A un certo punto, a circa metà del programma, cominciò a cantare Billie Holiday. Il pezzo era un blues, intitolato Fine and Mellow: uno dei rari blues del repertorio di Billie, grande blues singer che di blues veri e propri non ne cantò quasi mai.
Nella band, tra i sassofonisti, c’era anche Lester Young. Che quel giorno stava male e non avrebbe voluto nemmeno suonare. Aveva quarantotto anni, ma era come se ne avesse avuti cento. Troppa vita, troppa sofferenza, troppa musica, troppa robaccia nelle vene. Billie ne aveva quarantadue, ma non è che cambiasse molto: non aveva più che un filo di voce, la sua arte si era consumata nell’alcool, nella droga, in una vita vissuta senza risparmiarsi niente.
Pare che i due, una volta amici fraterni (qualcuno dice anche amanti), da qualche tempo non si parlassero quasi più.
Ma arriva un momento, dopo il tema cantato da Billie, dopo l’assolo di Ben Webster; un momento in cui Lester Young si alza, raggiunge il microfono e comincia a suonare, ciondolando un po’ da una parte all’altra.
E fa uno degli assolo più belli della sua vita.
Sono poco più di trenta secondi: quattro o cinque frasette blues, semplicissime, elementari. Non più di una cinquantina di note, in tutto. Ma ognuna sembra spremuta dal midollo di un’intera esistenza passata tra il fumo dei locali e il fondo delle bottiglie, ognuna arriva leggermente in ritardo, come se non volesse lasciare lo strumento, cedere il passo alla successiva (il termine tecnico è to lay back, ma da solo dice poco o niente).
E poi, la faccia di Billie. Appena Lester comincia a suonare, lei si volta e lo guarda, inclinando la testa, con una tenerezza da stringere il cuore: socchiude gli occhi, annuisce. Sì, sembra pensare, è sempre lui, è il vecchio Prez. Che cosa sarebbe il mondo, senza quel sax?
È un attimo. Ed è stato definito “il più bell’assolo muto della storia del jazz”.

Sergio Pasquandrea, Volevo essere Bill Evans, Fara Editore 2014

Fonte, capitolo completo e podcast http://www.radioemiliaromagna.it/programmi/racconti-autore/volevo-essere-bill-evans.aspx?fbclid=IwAR2tXt8tsydRVnEzzIvHTNdQolPb8B5iHSymyaSUZLm6eisuxuDYIadUi0k

Video:  https://my.mail.ru/mail/olga_ivanova_45/video/9/627.html

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