Jason Moran, cittadino di molti mondi

Negli ultimi anni Jason Moran mi ha sempre stupito per la sua versatilità e per la capacità di arricchire le formazioni più diverse apportandogli sempre un contributo creativo. Mi è però rimasto un interrogativo: “chi è veramente Moran ‘par luì meme’?”. Il concerto in solo in programma per JazzMi mi sembrava l’occasione ideale per chiarirlo. Prima una notazione di cronaca: la sciagurata sovrapposizione di tre importanti performances nella stessa serata ha prevedibilmente prodotto degli sparsi, ma consistenti vuoti nella platea di Moran: un peccato sia per il musicista, che soprattutto per quelli che non c’erano (tra l’altro da biglietteria elettronica i posti risultavano pressocchè esauriti, mistero….).
Nei suoi frequenti colloqui con il pubblico, il nostro si è rivelato un intellettuale a tutto tondo, con ampia cultura non solo musicale, e soprattutto molto stimolato dal contesto della Triennale: in particolare, ci ha parlato con sincero entusiasmo della sua visita alla mostra dedicata ai fratelli Castiglioni: Moran ha detto di invidiare ai famosi designer la loro capacità di prendere un oggetto, vederne le forme e gli usi possibili, trovargli la sua luce…. “E’ quello che vorrei fare io con la musica: progettare, progettare, ancora progettare…”. Un viatico ideale per il concerto che è seguito. Tra gli stimoli, va senz’altro annoverato il Fazioli gran coda a sua disposizione: se un comune ascoltatore della decima fila percepisce subito la qualità speciale di questi strumenti, figuriamoci un fuoriclasse della tastiera come Moran, che infatti ne ha cavato cose letteralmente inaudite.
Ma andiamo con ordine. La performance è iniziata con un esteso brano di sapore impressionistico, in cui il colore la faceva da padrone in sottili sfumature: del resto, Ravel (un segreto ‘cugino’ del jazz) è uno degli amori dichiarati di Jason. Tuttavia, l’ampiezza dell’elaborazione improvvisativa già annunziava un seguito piuttosto diverso. Dopo è sfilato elegantemente un brano di Jackie Byard (non è solo il fedele pianista di Mingus, riascoltatelo da solo…), dove la evidente attitudine analitica di Moran si è ulteriormente approfondita, senza però rinunziare ad una certa distesa e misurata cantabilità (un’altra faccia del pianista).
Con il brano successivo siamo entrati nel cuore della fucina creativa del nostro, una sorta di studio che un suo insegnante gli imponeva di frequente. Il riottoso Moran si è vendicato a distanza trasformandolo in una sorta di spirale minimalista che sprofonda lentamente nelle buie regioni dei registri più gravi del piano, da cui  è riuscito a far scaturire una lunga, vibrante ed indistinta risonanza il cui impercettibile movimento era generato solo da sottilissimi armonici. Chi vi scrive ha avuto la fortuna di ascoltare pianisti del calibro di Pollini e di Richter alle prese con ardui repertori del ‘900: vi posso garantire che mai ho sentito una prodezza del genere, che se giungesse alle orecchie di certi compositori contemporanei li porterebbe a sequestrare Moran in qualche segreta della Biennale veneziana, trasformandolo nel loro interprete d’elezione. Fortunatamente non corriamo questo rischio, dal momento che quei signori ascoltano pressocchè esclusivamente se stessi, o tutt’al più i più immediati concorrenti. “Elettronica? No grazie!”, non serve con una tecnica strumentale così abbagliante e stupefacente. Tanto stupefacente da poter addirittura poter diventare un problema: come tenerla sotto controllo, incanalandola verso compiuti esiti espressivi?
L’arcano vortice minimalista è sfociato a sorpresa in un meditativo blues, con una lampeggiante apertura che mi ha ricordato il Lennie Tristano di “Requiem”. Eh sì, perché il nostro è uno che ha profondissime radici nell’humus afroamericano: ce lo ha dimostrato facendo seguire due brani di Jim Reese Europe (ricordate? Il direttore nero in divisa che con i suoi Hell Fighters fece sbarcare il jazz in Europa…). Una sciolta interpretazione che ha la limpida distanza che promana da certe foto d’epoca ha portato ad un “Castle House Rag” pervaso da una scorrevole fluidità che ha fatto scaturire da un ragtime (la spigolosa musica della ‘Città che sale’, come avrebbero detto i futuristi) momenti di sorprendente ed inedito lirismo.

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Mentre il pianismo nitido ed incisivo di Moran scavava alla ricerca delle strutture fondamentali dei più vari materiali tematici (un intento esplicitamente dichiarato dal nostro in una delle sue interlocuzioni con il pubblico), mi sono passate davanti agli occhi le enigmatiche sfere di Arnaldo Pomodoro, che sotto una superficie levigata fanno emergere abissi di segreta complessità. Dopo l’affascinante viaggio tra i vari mondi di cui Moran è cittadino, rimane però ancora la domanda: “in quale metterà su casa?”   Milton56

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