Mitelli, Hawkins & co: l’improvvisazione fragile

Dopo aver così caldamente raccomandato questo atteso concerto ( vedi qui ), non posso certo esimermi dal fornirne un resoconto, quantomeno di come l’ho vissuto da parte mia. Anticipo che il quadro è in chiaroscuro, soprattutto per questioni di fruibilità della musica, che hanno a mio avviso inciso non poco sulla sua ricezione.
Come ha acutamente evidenziato Maurizio Franco in una breve, ma chiaramente didattica introduzione, il gruppo che stava per salire sul palco rappresenta nel modo più classico quella via spesso privilegiata dal jazz europeo nei suoi sforzi di affrancarsi dai grandi modelli americani: quella dell’improvvisazione ‘non idiomatica’, non ancorata cioè a predeterminati e condivisi ‘patterns’ melodici ed armonici (il lavorio sugli accordi del bebop, la incessante esplorazione delle scale del successivo jazz modale), ma che si inoltra nel campo aperto ed indefinito dell’elaborazione del puro suono, dei timbri, delle dinamiche ed infine del libero dialogo tra i musicisti. E’ chiaro che musica come questa esige una base di profonda conoscenza ed affiatamento tra chi la crea: nel nostro caso queste premesse di partenza sembravano esserci tutte, le affinità tra i due capofila Mitelli ed Hawkins balzano agli occhi anche ad un conoscitore superficiale dell’attuale scena europea: tra l’altro i due hanno in comune sia una formazione musicale alquanto anticonvenzionale persino per i nostri tempi, ed esperienze quanto mai diversificate ed ecclettiche. Last but not least, il possente bassista Edwards ed il batterista Sanders sono compagni di vecchia data di Hawkins.
Mitelli, grande specialista della tromba, questa volta si è presentato oltre che con la cornetta (strumento esteriormente simile alla tromba classica, ma con caratteristiche sonore piuttosto diverse) anche con il sassofono soprano ricurvo, strumento abbastanza esoterico che ricorre raramente anche nella dotazione di sassofonisti pluristrumentisti.
Il gruppo è partito pressocchè subito con un collettivo molto fitto ed intenso, ‘musica abrasiva’ come ha commentato una voce vicino a me: come spesso avviene in queste situazioni i musicisti hanno cercato di far lievitare gradatamente l’improvvisazione verso un successivo climax attraverso una fase di accumulo e di stratificazione basata anche su forti dinamiche sonore: e qui si è scoperto come anche l’apparentemente ruvida ed ‘abrasiva’ musica di improvvisazione globale possa rivelarsi fragile. Forse mi fa velo la mia ammirazione di lunga data per il pianismo contrastato, dinamico e composito di Hawkins, ma in questa occasione purtroppo l’ho percepito decisamente poco, sommerso come era dai livelli elevati della cornetta di Mitelli e, soprattutto, della batteria di Sanders, che per tutto il concerto ha fornito una costante prestazione muscolare ed ad alto voltaggio. Nel fitto dei ‘tutti’ spesso in platea si percepivano più che altro semplici blocchi di accordi e clusters, poco o nulla dell’usuale fraseggio brillante e quasi tagliente. Lo stesso si può dire del contributo di John Edwards, notoriamente bassista dal suono possente e dal fraseggio impetuoso, capace di emergere senza difficoltà anche in palchi affollati e tempestosi. In altre circostanze più usuali, l’ascoltatore che condivide con i musicisti certe convenzioni di improvvisazione (quella ‘idiomatica’, ovviamente) può anche ‘percepire implicitamente’ certe componenti ‘in secondo piano’ della musica, qui purtroppo non è possibile. Sono ritornato a riconoscere Hawkins ed Edwards solo in alcune isolate fasi di dialogo in trio, cui è seguito un pregevole assolo di basso. A mio avviso, questa sorta di ‘eclissi’ del piano non ha giovato neppure agli altri due strumenti ‘melodici’ di Mitelli, in particolare al soprano ricurvo, utilizzato precipuamente come generatore di ‘oggetti sonori astratti’ che mi hanno ricordato parecchio quelli ascoltati pochi giorni fa da Roscoe Mitchell al soprano ‘diritto’: ma Mitchell poteva permettersi queste sperimentazioni grazie al discreto, ma onnipresente sostegno strutturale fornito dalle trombe dell’ottimo Hugh Ragin. Ben altrimenti convincenti i fluviali e discorsivi passaggi alla cornetta, dove Mitelli vanta una padronanza consolidata nei più vari contesti e che consente notevoli libertà di sperimentazione. Nonostante molti momenti di forte intensità, non abbiamo afferrato quei climax, quei punti di sintesi cui il gruppo puntava, né sono state in qualche modo percepite quelle cellule tematiche che usualmente scandiscono in fasi anche questo tipo di musiche.
Che dire? E’ possibile che i musicisti (ed i tecnici del suono, non a caso isolati in una cabina in fondo alla platea) abbiano ascoltato attraverso i loro monitor una musica diversa e più bilanciata nelle sue componenti; può essere che abbiano giocato i noti limiti della sala Di Vittorio, che, pur generosamente concessa, è nata per i congressi e non come auditorium: limiti già in passato emersi a fronte di organici numerosi o dall’impatto sonoro elevato. Resta il fatto che ogni musica ha il suo ambiente sonoro ideale: ce ne sono che tollerano trasferte in contesti acustici meno ospitali, altre no, ed è il caso delle musiche di ricerca come quella di Mitelli, Hawkins e.c. Non a caso, mi sono trovato spesso ad immaginare come il gruppo avrebbe potute emergere nel più filtrato e controllato ambiente di una registrazione discografica, ambito in cui sarebbe bello risentire quella che rimane una formazione stimolante e ben assortita: purtroppo non è facile immaginare quale nostra etichetta possa sobbarcarsi gli oneri organizzativi di far registrare dopo adeguate sessioni di rodaggio una band di questo tipo, la Puglia delle Auand e delle Dodici Lune è ahimè lontana.
Non resta che augurarsi che altre istituzioni concertistiche dimostrino la stessa curiosità e gusto dell’avventura dell’Atelier, fornendo al gruppo nuove e più favorevoli occasioni di messa a punto.

Milton56

2 Comments

  1. Con tutto l’affetto che nutro verso questi musicisti, devo confessare che ho trovato il concerto noioso, un free energico ma datatissimo, pochissima musica. Sarà anche colpa dell’acustica del posto che penalizza ogni gruppo con un batterista? Forse. Forse per essere più fruibile il concerto avrebbe avuto bisogno di altre dinamiche, non solo sonore ma anche musicali. Almeno a mio modesto parere.
    Loris

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  2. Parere autorevole, Loris, considerata la tua vasta esperienza d’ascolto in questo campo. Evidentemente non sono il solo ad esser uscito dalla sala con il classico ‘bicchiere mezzo vuoto’. Per quanto mi concerne, io concederei una prova d’appello a questo gruppo, che però dovrebbe giungere dopo un adeguato periodo di rodaggio in prova e dal vivo. Il nostro circuito jazzistico può consentire una simile messa a punto? Mah, il dubbio è forte. Concordo con Te sul fatto che paradossalmente anche nel campo della musica di ricerca si stanno affacciando delle ‘maniere’ , che spesso sopperiscono a condizioni ambientali non favorevoli ed a difficoltà di approfondire l’affiatamento. Infine non vorrei che anche la ‘fragile’ musica d’avanguardia venga attratta in quel frenetico valzer di continue ricombinazioni d’organico che interessa la scena mainstream italiana, con discutibili esiti sullo sviluppo di definite ed incisive linee evolutive della musica dei singoli e soprattutto dei gruppi. Ma questo è discorso che porta lontano, e che comunque approfondiremo in altra sede. Grazie per l’attenzione. Milton56

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