Dexter ed il suo ‘Commendatore’ – Live a Parigi 1977, con Al Haig

Un’etichetta di recente apparizione, la Elemental, ha pubblicato in questi giorni la registrazione di un concerto parigino del 1977 in cui compare un quartetto capitanato da Dexter Gordon, con Al Haig al piano, Pierre Michelot al basso e Kenny Clarke alla batteria. Elemental sembra somigliare parecchio alla ormai nota e lodata Resonance, stessa cura editoriale (la regia generale è di Michael Cuscuna, Mosaic Records, Miles Davis Bootlegs e ‘cosette’ del genere) e financo stessa fonte, i futuristici, magici archivi digitali dell’ INA di Parigi, cioè la fu radio nazionale francese.

Già per questo siamo due palmi al di sopra della pletora di dischi ‘live’ d’epoca che affollano discutibilmente l’anemico mercato discografico odierno. Scorso il glorioso ‘roster’ di cui sopra, si potrebbe concludere che ci troviamo di fronte ad un affascinante, ma crepuscolare ‘ritorno di fiamma’ del bebop più classico e puro in anni che ormai erano alle soglie della postmodernità e di quella che io chiamo la ‘Grande Diaspora’ jazzistica. Intendiamoci, già così ce ne sarebbe d’avanzo: il bebop in senso proprio (attenzione non l’ ‘hard bop’, altra cosa…) è tutt’altro che un capitolo chiuso, molti sono i ‘sentieri interrotti’ ed ancora inesplorati che da esso si diramano.
Ma in questo CD c’è molto di più….. che lo riscatta da un destino da ‘perla rara’ destinata ai soli ‘completisti’ di Dexter (peraltro parecchi..).

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(“Our Man in Paris”, un ‘fortunoso capolavoro’) 

Innanzitutto un inquadramento storico, anche nella vicenda individuale dei musicisti coinvolti. Gordon proprio in quei mesi si sta nuovamente radicando negli States dopo una lunga permanenza in Europa. Forse sarebbe meglio parlare di ‘convalescenza’ dopo le vicissitudini per droga che lo portano a lasciare un’America di cui da ultimo ha conosciuto più che altro prigioni e centri di disintossicazione. La ‘cura’ europea porterà frutti ammirevoli come ‘Our Man in Paris’ (in cui non a caso compaiono già Clarke e Michelot, accanto ad un grande, ma problematico Powell). Al Haig, musicista dalla formazione poliedrica, è uno dei pochissimi bianchi ammessi di diritto nell’esoterica confraternita dei boppers della prima ora, soprattutto dopo le lodi al suo pianismo dispensate da un taciturno Bud Powell. Il tramonto della stagione d’oro del bebop, in cui colleziona collaborazioni del livello di quelle con Parker, Gillespie, Getz, il famoso nonetto davisiano di ‘Birth of the Cool’, segna anche una sua eclisse artistica e professionale (lunghi anni di ‘easy listening’, sia pure in locali di livello) e gravi traversie personali (viene accusato, e poi scagionato, dall’accusa di aver provocato la morte della moglie). Gli rimangono ancora pochi anni davanti, morirà nel 1982 dopo aver conosciuto un breve ritorno sulla ribalta jazzistica. Cosa dire di Pierre Michelot, il bassista reduce da mille battaglie, se non forse che è stato il primo partner conosciuto da tanti ‘emigrè’ del jazz una volta sbarcati nella sua seconda culla, Parigi? Kenny Clarke, il batterista ‘primigenio’ del bebop, può esser ben considerato il decano della ‘lost generation’ di jazzmen americani temporaneamente rifugiati o stabilmente trapiantati in Europa.
Diciamocelo: nelle tinte prevalenti, non è certo un quadro di sereno godimento dei dividendi di carriere saldamente consolidate: tira piuttosto aria di ‘prova d’appello’, quasi di riscatto, quantomeno per Gordon ed Haig . A tutti i membri della band non manca l’esperienza ed il mestiere per riproporre in modo fresco e creativo – e soprattutto senza prendere grandi rischi – un bebop che è ancora in parte un ‘discorso aperto’, soprattutto dopo il graduale esaurirsi delle fiammate dei vulcanici anni ’60: c’è anche un pubblico desideroso di riannodare troppi fili sparsi lasciati nel grande arazzo della musica afroamericana.

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(Dexter Gordon e Francois Clouzet in “Round Midnight”, 1986)

Ma ritorniamo al parigino Space Cardin del 1977. Il concerto inizia con qualche nota intensamente lirica del solo Dexter: ma è una falsa partenza, il sassofonista si interrompe, saluta il pubblico con una sfumatura d’ironia. ‘Il buon giorno si vede dal mattino’, il futuro personaggio che Dexter porterà sul set dello splendido ‘Round Midnight’ di Bertrand Tavernier non è solo una finzione scenica. Il lieve nervosismo di quest’esordio si stempera con uno ‘Sticky Wicket’, 13 minuti di ‘business as usual’ di alta classe, attese rispettate. Immediatamente dopo, però, giungiamo al punto focale, di autentica svolta, che dà interesse e fascino a questo disco. Inaspettatamente, Gordon imbraccia il sax soprano, strumento da lui poco frequentato ed adeguatamente padroneggiato solo in fase avanzata della sua carriera. Il soprano è strumento abbastanza ostico ed infido, che incute soggezione anche ad un tenorista di grande esperienza che non vi si dedichi con l’assiduità di un Coltrane o di uno Shorter: il Gordon parigino del 1977 dimostra di esserne perfettamente consapevole. Ma a questa prima audace puntata, si aggiunge un ulteriore, e forse maggiore, rilancio: il brano si intitola ‘A la Modale’. Quando nel 1962 Gordon lasciò gli USA, la nuova novella del ‘Lydian Concept’ di George Russell aveva appena cominciato a reclutare i suoi apostoli, e loro prime opere compiute alla luce del nuovo approccio improvvisativo basato sulle scale difficilmente devono aver varcato le mura degli istituti correzionali in cui Gordon risiedeva pressocchè in pianta stabile. Ma i 13 e passa minuti ‘modali’ non sono l’azzardato capriccio di un grande virtuoso che vuole dimostrare di saper giocare anche ‘fuori casa’: nonostante il procedere saggiamente cauto e sorvegliato dei primi chorus, dopo poco si rivela la ragion d’essere artistica della scelta, sul periodare gradatamente sempre più ampio e disteso di Gordon aleggia lo spirito di John Coltrane, che alla fine si manifesta in pieno con una chiarissima citazione del nocciolo tematico di ‘My Favourite Things’. Non cediamo alle tentazioni della retorica, e diamo pure conto di un certo disagio e difficoltà del gruppo a seguire l’exploit di Gordon. Dexter, con il suo improvvisare basato su archi melodici molto ampii, con una costruzione musicale ‘per grandi blocchi’, è tecnicamente e stilisticamete molto distante anche dal Coltrane dei primi anni ’60: potremmo uscirne con un paragone architettonico, vedendo in Coltrane il costruttore di sottili guglie e merletti gotici in perenne lotta con la gravità, mentre Gordon appare più come il metodico, tenace edificatore di robuste e stabili basiliche romaniche. Ma anche nel Dexter della serata parigina finisce per emergere quell’estatico abbandono alla distesa cantabilità che rappresenta un indubbio e sincero punto di contatto con il Coltrane delle prime esperienze da leader del mitico quartetto. Certo, il povero Haig ha un pianismo ancora gravato di abbellimenti e fioriture che non consentono i vertiginosi ‘voli radenti’ con cui McCoy Tyner sosteneva il suo leader, ma a tratti anche lui è capace di qualche balzo notevole dando fondo al suo consumato mestiere. Invece il beat marcatamente e vistosamente accentato di Clarke indubbiamente rappresenta un elemento di freno, ma va considerata la lunga attitudine di batterista di big band maturata negli anni europei a fianco di Francy Boland. Non parliamo quindi di un capolavoro perfettamente risolto sotto il profilo della compattezza e dell’impeccabilità esecutiva, ma siamo davanti senz’altro ad uno di quegli emozionanti azzardi in cui si mostra quella magica ed irripetibile ‘sincronicità’ del mondo del jazz del secondo dopoguerra, in cui il trascorrere del tempo e delle generazioni non ha tanto la forma di una freccia rettilinea, bensì quella di una sinuosa ed intricata spirale. Lo aveva intuito anche un grande, appassionato dilettante del jazz: Julio Cortazar. Dopo la febbrile cavalcata di ‘A la Modale’, segue un ‘Body and Soul’. Un assennato ‘ritorno all’ordine’? Nemmeno per idea, il giocatore Gordon sfodera infatti un arrangiamento di John Coltrane, con sensibili alterazioni degli accordi del brano. “Quando l’ha sentito Ben Webster, mi ha tolto il saluto per settimane”, raccontò poi Dexter, ad un passo dall’esser moralmente diseredato. Anche qui il risultato è una ballad resa ‘a ciglio asciutto’, punteggiata da tante digressioni ed incisi che ne dissipano il pathos più ovvio e portano ad una sua resa misurata e distaccata, quasi uno ‘studio’: anche qui il Coltrane di ‘Ballads’ non è distante, a dieci anni dalla morte e nonostante un’ondata di ‘coltranismo manierista’ spesso fastidioso, l’uomo di Hamlet rimane un ‘convitato di pietra’ ineludibile, ma benevolo ed ispiratore, al contrario di quello sinistro del ‘Don Giovanni’ mozartiano.

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(Dexter, il ‘giocatore’)

Lo spazio tiranno ci consente appena di menzionare un successivo ‘Antabus’ (amara allusione di Gordon ad un trattamento farmacologico contro l’alcolismo) ed un fascinoso ‘Oleo’, in cui Dexter paga un altro debito all’ammirato Sonny Rollins. Il CD si chiude con il bonus di un “Round Midnight’ affrontato dal solo trio Haig/Michelot/Clarke, un meritato epilogo rasserenante in una serata vissuta probabilmente all’insegna del cardiopalma.

Che dire in conclusione? Cercate la levigata, impeccabile rifinitura formale? Passate oltre e rivolgetevi alle ore ed ore di recente catalogo ECM (con alcune dovute eccezioni). Se invece volete condividere l’emozione degli azzardi ‘against all odds’, contro ogni piana ragionevolezza, con cui il jazz è capace talvolta di sorprenderci, questo piccolo, strano disco è irrinunziabile. Milton56

 

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