Ecco un disco che potrebbe causare dispiaceri ad almeno due categorie di ascoltatori. Da un lato i jazzofili che mal tollerano gli sconfinamenti del verbo in campo pop, dall’altro gli appassionati dei Fab Four che collezionano covers cercando affinità e sintonie con gli originali. I quali sono inimitabili, ed è bene restino tali, sembrano suggerire i curatori della Impulse! di questa raccolta che, in onore al capolavoro dei Beatles, raccoglie molti esponenti della nuova scena del jazz contemporaneo, con l’intento di lasciare la più ampia libertà di divagazione e stravolgimento rispetto alle tredici tracce originali. Ci si sbizzarrisce senza limiti da queste parti, ed il rispetto per le melodie non sembra essere fra le preoccupazioni degli interpreti. Si riconoscono è vero, una “She’s leaving home” affidata alla tromba di Keyon Harris, la melliflua versione dance floor di “A day in the life” dei chicagoani The Ju Ju experience , forse l’unico pezzo debole del disco, una “When i’m sixty four” decostruita ritmicamente dal pianista Sullivan Fortner e, ovviamente, “With a little help from my friends”, che Mary Halvorson si diverte a scarabocchiare di disaccordi e cali di tono. Ma negli altri casi solo qualche brandello di tema qua e là, giusto un accenno, prima che l’urgenza di inventare prenda il sopravvento. Così il batterista Antonio Sanchez cuce un abito post rock alla title track, con corredino di breve reprise cut’n’paste percussiva, Miles Mosley trapianta un travolgente e distorto groove funk sul tronco di una irriconoscibile “Lovely Rita”, i Wildflower , trio composto da Idris Rahman , Leon Brichard e Tom Skinner, modellano “Getting better” in un lungo solo di sax supportato da una base dub, ed i newyorkesi The Onyx Collective portano “Whitin you without you”” sulle rotte di un elettro raga su cui svetta la voce sciamanica del sax. Il meglio è fornito da uno dei nomi di punta del nuovo panorama jazz statunitense, Makaya Mc Craven, che, con una geniale intuizione, rivoluziona “Lucy in the sky with diamond” in avvolgente trip hop che si trasforma in jazz, dalla sodale arpista Brandee Younger , abile su “Being for the benefit of Mr. Kite”, a mescolare il suo strumento ai flauti ed ai sax in un brano di matrice jazzistica, dai britannici Shabaka and the Ancestors che usano la parte tematica di “Good morning good morning” per imbastire un crescendo etno jazz condotto dal gioco incrociato dei fiati . Infine “Fixing a hole”, nella versione del pianista Cameron Graves, musicista del giro di Kamasi Washington: è una piccola suite per solo pianoforte nella quale una parte iniziale composta da imponenti blocchi ritmici, gradualmente sfocia in un largo melodico per trasformarsi di nuovo, con un rapido cambio di tempo, in una sezione neoclassica combattuta fra astrattismo e materia, e poi tornare al modo iniziale.
Da ascoltare senza pregiudizi, “Impressions of Pepper”. Anche se appartenete ad una delle due categorie citate sopra.
Makaya degno figliolo di papà Steven (lo abbiamo sentito lunedì sera in radio con Archie Shepp), farà molta strada, soprattutto come leader. Chissà quando e se riusciremo a sentirlo dal vivo.. Milton56
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